Cerca nel sito

dal 29/04/2008 - al 14/03/2013

Vai alla Legislatura corrente >>

Per visualizzare il contenuto multimediale è necessario installare il Flash Player Adobe e abilitare il javascript

MENU DI NAVIGAZIONE PRINCIPALE

Vai al contenuto

Fine contenuto

MENU DI NAVIGAZIONE DEL DOMINIO PARLAMENTO

INIZIO CONTENUTO

MENU DI NAVIGAZIONE DELLA SEZIONE

Salta il menu

Strumento di esplorazione della sezione Documenti Digitando almeno un carattere nel campo si ottengono uno o più risultati con relativo collegamento, il tempo di risposta dipende dal numero dei risultati trovati e dal processore e navigatore in uso.

salta l'esplora

Temi dell'attività Parlamentare

"Un anno di rivolta". Il Rapporto di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani in Medio Oriente ed Africa settentrionale

Il 9 gennaio 2012 Amnesty International ha diffuso un ampio rapporto, redatto in inglese, intitolato “Un anno di rivolta”. La situazione dei diritti umani in Medio Oriente e Africa del nord[1] dedicato all’analisi della situazione dei diritti umani nei Paesi dell’area MENA (Middle East and North Africa) e segnatamente in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria, Barhein ed in Iraq. 

Nell’Introduzione viene sottolineato il carattere senza precedenti della “primavera araba” del 2011, sostanziatasi in una richiesta di cambiamento proveniente dalle più diverse componenti della popolazione dei Paesi coinvolti e proseguita nonostante la reazione di ”estrema violenza” delle forze militari e di sicurezza. Viene altresì richiamata la sfida senza precedenti cui è stata chiamata Amnesty International nell’azione di risposta agli eventi, documentazione, mobilitazione dei propri operatori e affiancamento alle popolazioni in rivolta sulla prima linea della richiesta di riforme, responsabilità e reali garanzie per i diritti umani.

Tunisia

Al quadro dei diritti umani in Tunisia ilReport tratteggia una situazione di complessivo miglioramento compensata in negativo da un ritmo di cambiamento troppo lento e da un elevato rischio di impunità per i responsabili delle violazioni compiute in passato.

Nel paese che è stato ilprimo focolaio di rivolta la prosecuzione di proteste - dopo la caduta del PresidenteZine El Abidine Ben Ali (14 gennaio 2011) e le successive dimissioni del primo ministro Mohamed Ghannouchi - aventi per obiettivi la richiesta di occupazione, maggiore libertà, processi per gli esponenti della famiglia dell’ex presidente e per i funzionari ritenuti responsabili di corruzione, hanno mostrato al mondo che il focus della rivoluzione dei gelsomini non si limitava all’abbattimento del regime ma puntava anche alla richiesta di significative riforme in materia di tutela dei diritti umani. Le misure adottate sia dal governo ad interim sia dall’esecutivo formatosi dopo le elezioni dell’Assemblea costituente[2] non sono ancora confluite, si legge nel Report, in una riforma istituzionale capace di fornire efficaci garanzie contro la riproposizione di abusi.

Tra gli elementi positivi il rapporto evidenzia il nuovo orientamento del paese in tema di tutela dei diritti umani testimoniato dalla ratifica dei principali trattati internazionali in materia, tra i quali Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), il Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura e altri Trattamenti crudeli, inumani o degradanti, la Convenzione Internazionale per la protezione delle persone dalle sparizioni forzate, e lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (CPI).

Positivo anche il consenso (maggio 2011) del Governo all’ingresso in territorio tunisino, per la prima volta, del Relatore speciale delle Nazioni Unite per la tortura, in risposta a una richiesta risalente al 1998. Passi significativi sono stati compiuti per la libertà di espressione e di associazione (nuova legge sulla stampa e legge sulla libertà di comunicazione audiovisiva) e un miglioramento, stando ai dati forniti dal Ministero dell’Interno, si è avuto anche in ordine alle libertà politiche e sociali, con un incremento notevole delle autorizzazioni rilasciate alle associazioni ed ai partiti politici. I

l quadro dei diritti delle donne, a seguito del ritiro di alcune riserve alla Convenzione delle Nazioni Unite sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione, da parte del Governo ad interim (che pure ha ribadito la necessità di rispettare le disposizioni della Costituzione tunisina che si riferiscono alla legge islamica) sembra essere migliorato e rappresenta un elemento di positività, anche in quanto suscettibile di promuovere analoghi orientamenti in altri paesi.

Tra gli aspetti problematici il Report sottolinea il rischio di impunità degli operatori di polizia e di esponenti dell’autorità giudiziaria responsabili in passato di violazioni dei diritti umani; in tale ambito l’unica eccezione è rappresentata dallo scioglimento della Direzione per la sicurezza dello Stato (DSS) responsabile, si legge nel rapporto, di torture inflitte ai detenuti e di intimidazioni nei confronti degli atticisti pro diritti umani e di giornalisti indipendenti.

La stessa commissione d'inchiesta istituita per indagare su violazioni dei diritti umani commessi durante la rivolta e le sue conseguenze (Bouderbala Commission) ha sino ad ora reso noti solo alcuni risultati parziali. Il Report, infine, evidenzia il carattere negativo del rinnovo a tempo indeterminato, risalente ad agosto 2011, dello stato di emergenza nazionale, che ha consentito restrizioni di diritti fondamentali nonché la repressione delle proteste perduranti a fronte della lentezza dei processi di riforma.

Egitto

La sezione dedicata all’Egitto si apre conuna ricognizione dello stato dei diritti umani all'inizio del 2011, connotato da una popolazione oppressa da un trentennio di stato di emergenza, da una repressione del dissenso definita spietata, da alti livelli di corruzione e da povertà endemica, con forze di sicurezza operanti in condizione di quasi totale impunità e responsabili di diffuse e quasi routinarie violazioni dei diritti umani, tra cui arresti arbitrari, torture e processi iniqui.

Nei 18 giorni di imponenti manifestazioni contro il regime, iniziate il 25 gennaio 2011, e sino alle dimissioni del Presidente Hosni Mubarak (annunciate l’11 febbraio) le stesse forze di sicurezza, nonché teppisti “assunti dalle autorità” hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani e, si legge nel Report, 840 persone sono state uccise e circa 6.000 ferite.

Il Rapporto segnala altresì l’arresto, la tortura, la sparizione forzata di persone, di attivisti dei diritti umani e di operatori dell’informazione. Il fatto che in molti casi le violazioni siano state commesse da membri della polizia militare rafforza il timore che tortura e maltrattamenti, in mancanza di un’imputazione di responsabilità a carico di chi commette tali abusi, possano diventare una caratteristica endemica degli apparati di applicazione della legge in Egitto.

Dopo l’assunzione del potere da parte del Consiglio superiore delle Forze armate (SCAF) (11 febbraio 2011)[3] sono state introdotte, si legge nel Report, riforme che hanno inciso sui diritti umani talora in senso positivo, talora in senso contrario.

Alle riforme positive vengono ascritti sia lo scioglimento delle State Security Investigations (SSI), l’agenzia di sicurezza di polizia “nota per le violazioni di diritti umani” (si legge nel rapporto), sia la modifica della legge sui partiti politici, che ora consente una più ampia partecipazione alle competizioni elettorali nazionali, estesa anche ai Fratelli Musulmani.

Anche il riconoscimento di sindacati indipendenti e del loro diritto a federarsi e ad associarsi alle confederazioni sindacali operanti a livello internazionale viene annoverato tra gli elementi positivi anche se, viene sottolineato nel Report, la legge n. 34 del 2011 interviene a limitare la libertà di azione sindacale stabilendo una pena detentiva e una multa assai elevata[4] per chi partecipa o incoraggia altri a unirsi in sit-in o qualsiasi altra attività che impedisca, ritardi o interrompa il lavoro di enti pubblici o pubbliche autorità.

Permangono invece, tra gli elementi negativi sottolineati dal Report, il mantenimento dello stato di emergenza, in vigore dal 1981, nonché taluni provvedimenti legislativi. Innanzitutto la conferma dell’applicazione integrale della Emergency Law (n. 162/1958) estesa alla criminalizzazione di atti come il blocco stradale, le comunicazioni e gli “attacchi alla libertà di lavorare”, modifiche che minacciano direttamente la libertà di espressione e associazione ed il diritto di assemblea e di sciopero, rovesciando quelle riforme che lo stesso Mubarak era stato costretto ad attuare; la legge sul teppismo (Law on Thuggery n. 10/2011) che criminalizza intimidazione e disturbo della quiete con il raddoppio delle sentenze già previste nel Codice penale (è prevista anche la pena capitale).

Vengono poi segnalate restrizioni alla libertà dei mezzi di comunicazione, con particolare riferimento alla possibilità di muovere critiche “without prior consultation and permission” nei confronti delle Forze Armate. Misure restrittive hanno riguardato la possibilità per le ONG di ricevere finanziamenti esteri senza autorizzazione e si segnala l’incarcerazione di operatori dell’informazione e di giudici colpevoli di aver denunciato violazioni dei diritti umani e abusi da parte dei militari, nonché mancate riforme.

Dalla fine di febbraio 2011 in poi le forze armate hanno usato la violenza per disperdere i manifestanti in varie occasioni; l’inchiesta che il Consiglio Superiore delle Forze Armate afferma di aver ordinato in proposito non ha prodotto esiti pubblici. I manifestanti che a piazza Tahrir il 19 novembre 2012 chiedevano tra il resto il passaggio dei poteri ad un governo civile sono stati dispersi con un uso eccessivo della forza che ha provocato morti e feriti. La magistratura militare ha affermato di aver giudicato, tra fine gennaio e agosto 2011, circa 12.000 persone con condanne che, per violazione de coprifuoco, violenza e possesso di armi, contemplavano pene tra alcuni mesi di carcere sino alla pena capitale[5].

Il 3 agosto è iniziato anche il processo all’ex presidente Mubarak, test importante per valutare l’impegno delle autorità per la giustizia e la lotta all’impunità. Quanto alla situazione delle donne, in prima linea nei giorni della rivoluzione, il nel rapporto si legge che non solo nulla è stato fatto per garantirne la partecipazione equa ai processi decisionali, ma che è stato eliminato il previgente sistema delle quote (previsto nella legge elettorale) a favore del requisito della presenza di almeno una donna nella lista di ciascun partito, senza richiesta di collocazione in posizione apicale.

Un anno dopo la rivolta, il Consiglio superiore delle Forze armate, conclude il rapporto, è ben lontano dall’aver dato adeguato riscontro alle speranze e alle aspirazioni che l’avevano innescata.

Libia

Nonostante una situazione dei diritti umani “assai triste” la Libia, per decenni considerata a “pariah state” era stata riaccolta nel consesso internazionale, e nel 2010 eletta membro del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani[6], grazie al fatto, si legge nel Report, che i Governi occidentali avevano chiesto aiuto al colonnello Gheddafi nel controllo dell’immigrazione e nel contrasto al terrorismo, con occhio attento anche all’accesso alle vaste risorse petrolifere del paese.

Le vicende del 2011 – costituzione dell’NTC (National Transitional Council) a Bengasi, dichiarato governo provvisorio, le sanzioni imposte a febbraio dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’intervento della coalizione internazionale a guida NATO a marzo – sono giunte all’epilogo del 23 ottobre, con l’annuncio da parte dell’NTC della liberazione del paese, dopo otto mesi di un conflitto caratterizzato anche da enormi violazioni di diritti umani tra cui attacchi indiscriminati, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie e torture.

Il nuovo Governo formatosi a novembre ha subito dovuto affrontare il problema del ristabilimento dell’ordine e dell’implementazione del disarmo a fronte del sussistere ed operare incontrollato di milizie armate.

Tra gli aspetti negativi della tutela dei diritti umani in Libia il Report riferisce di diffusi arresti, effettuati senza mandato delle autorità giudiziarie, di soldati veri o presunti fedeli a Gheddafi, nonché di cittadini stranieri, in particolare africani sub sahariani, sospettati di essere mercenari del Colonnello. Molti tra le migliaia di individui arrestati nella parte occidentale del paese dopo la fine di agosto, quando Tripoli e le aree limitrofe sono cadute sotto il controllo dell’NTC, sarebbero stati maltrattati e percossi nonché detenuti in centri di detenzione improvvisati, spesso sotto il controllo di brigate rivoluzionarie, senza la possibilità di accedere a giusto processo[7].

Il Rapporto evidenzia invece positivamente l’impegno del NTC nel rispetto dei diritti umani e delle norme del diritto internazionale umanitario. Viene inoltre richiamata la dichiarazione costituzionale emessa ad agosto[8] che oltre a ribadire tali principi ha enunciato anche quelli del rispetto delle libertà fondamentali, della non discriminazione per i cittadini anche a motivo di sesso, razza e lingua nonché il diritto a un processo equo e alla richiesta di asilo. Il rapporto sottolinea che una maggiore libertà di espressione è già realtà nel paese e che dopo decenni la Libia ha visto proliferare organizzazioni della società, gruppi politici e media.

Quanto alla condizione femminile, il Report sottolinea che la rapida evoluzione delle proteste antigovernative in un vero e proprio conflitto armato ne ha ridotto la partecipazione in prima linea e conseguentemente la visibilità; numerose, peraltro, sono state le segnalazioni di violenze e di abusi compiuti su donne arrestate.

Mentre rimane molto bassa la rappresentanza femminile nelle istituzioni, viene segnalato il dato negativo rappresentato dal pubblico sostegno dell’NTC alla poligamia, lesiva dei diritti delle donne. Tra i compiti più impegnativi del nuovo governo il rapporto indica la soluzione del lascito di impunità, sussistente da quattro decenni (ossia dalla durata stesa del regime di Gheddafi) per risarcire le numerose vittime di violazioni dei diritti umani. Per dare sostanza all’impegno assunto dall’NTC è necessaria l’istituzione di meccanismi efficaci ad indagare le violazioni compiute, cogliendo l’inedita opportunità, nell’attuale fase di transizione della Libia, di affrontare e risolvere i torti del passato costruendo un sistema di effettive garanzie contro la loro ripetizione[9].

Yemen

Da gennaio 2011 lo Yemen è stato teatro di manifestazioni di protesta attivate dalla società civile a seguito – si legge nel Report – dell’intenzione del Governo di promuovere modifiche costituzionali suscettibili di consentire al Presidente Ali Abdullah Saleh di rimanere in carica a tempo indeterminato[10].

Sorpreso dal rapido dilagare delle proteste e dalla loro vasta scala, Saleh aveva provato, senza successo, a raffreddare la temperatura annunciando l’intenzione di non ricandidarsi “limitando” al 2013 la propria permanenza in carica (come è noto egli era Presidente della Repubblica araba dello Yemen del Nord dal 1978), nonché di aprire negoziati con il Joint Meeting Parties, coalizione esapartitica di opposizione in vista della formazione di un nuovo governo. Nonostante una repressione di crescente violenza con alti costi in perdite umane, le proteste hanno continuato a dilagare, alimentate dall’impossibilità di giungere ad un accordo a causa della permanenza in carica del Presidente.

L’imposizione dello stato di emergenza, a marzo, dopo lo scioglimento dell’esecutivo (dal quale alcuni ministri si erano dimessi) ha comportato una severa stretta censoria sui media ed un ampliamento dei poteri delle forze di sicurezza in materia di arresti, detenzione e divieto di proteste. Falliti i tentativi di mediazione del Consiglio di Cooperazione del Golfo, la cui proposta di accordo veniva rifiutata dal Saleh, la crisi si è andata ulteriormente aggravando anche per la concorrenza dell’elemento tribale durata sino al temporaneo cessate il fuoco intra-tribale dichiarato a fine maggio.

Dopo l’assunzione del potere, a giugno, da parte del vicepresidente Abd Rabbu Mansour Hadi, successivamente all’attacco al palazzo presidenziale ed al ferimento di Saleh, evacuato in Arabia Saudita, il quadro dello Yemen, dove la neo costituita alleanza di opposizione non dava segni di tenuta, si andava deteriorando facendo temere la guerra civile. Il rapporto pubblicato il 13 settembre 2011[11] del gruppo di inchiesta inviato su mandato del Consiglio dei diritti umani dall’Alto Commissario dell'ONU (28 giugno- 6 luglio) ha evidenziato gravi e diffusi abusi in materia di diritti umani e un uso eccessivo della forza, atti per i quali ha sollecitato un’indagine internazionale mirante a individuarne i responsabili.

Con la Risoluzione 2014 adottata all’unanimità il 21 ottobre 2011[12], il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha chiesto la fine delle violenze e l’accettazione del piano per la pace predisposto dal Consiglio di Cooperazione del Golfo che contempla le dimissioni del Presidente Saleh il quale, per parte sua, ritornato a Sana’a il 23 settembre, si dimetteva il 23 novembre 2011 consentendo finalmente il passaggio dei poteri al vice presidente Hadi e rendendo possibile l’implementazione dell’accordo CCG.

L’accordo prevede la formazione di un Governo di riconciliazione nazionale dove il partito al potere e le opposizioni sono egualmente rappresentati nonché la celebrazione di elezioni presidenziali (che dovrebbero tenersi il 21 febbraio 2012). Nel Report di Amnesty International si legge che, quale controparte, Saleh e il suo inner circle  hanno ottenuto l’immunità penale per i crimini commessi durante le proteste del 2011 e lungo tutto l’arco delle pluridecennale presidenza. Sebbene proprio il rifiuto di lasciare un incarico tenuto per un lungo periodo, costellato da indebolimento dello stato di diritto e violazioni dei diritti umani, abbia agevolato la costituzione di un ampio fronte contro Saleh, partecipato sia dalle forze del nord dello Yemen (Huthi) sia dal Movimento del sud, il perdurare dei conflitti tribali sta mettendo in difficoltà l’esecutivo yemenita nel controllo di alcune aree del paese, dove è altresì segnalata la penetrazione di militanti islamici ritenuti legati ad al Qaeda.

Tutto ciò concorre ad aggravare ulteriormente il quadro delle condizioni di vita della popolazione yemenita, la più povera della regione, esposta nel corso del 2011 a violenza e ad una crisi umanitaria pesantissima derivante dal rifiuto di Saleh a passare la mano. “This was due – si legge nel rapporto - in no small part to the failure of his principal allies and benefactors, the governments of Saudi Arabia and the USA, to insist earlier that he stand down and make way for a new, more democratic Yemen based on respect for human rights and the rule of law”.

Siria

Il quadro dei diritti umani in Siria, paese da quarant’anni sottoposto al pugno di ferro della famiglia al-Assad, si è ulteriormente aggravato, si legge nel Report, dopo il dilagare delle manifestazioni di protesta iniziate il 18 marzo 2011 a Dera’a e subito represse con brutalità dalle forze di sicurezza e dall’esercito. In proteste “nella maggioranza dei casi pacifiche” persone provenienti da diversi settori della società siriana, compresa una quota della popolazione femminile, si sono ritrovate unite contro il regime e anche contro il silenzio della comunità internazionale e la posizione della Russia.

Nel corso delle manifestazioni indette ogni venerdì, parallelamente alla crescente consapevolezza dei propri diritti da parte di sempre più ampi strati della popolazione è emersa, sottolinea il rapporto, una nuova generazione di attivisti dei diritti umani. Le riforme, definite “cosmetiche”, concesse dal presidente Assad a fronte della pressione della piazza e della condanna internazionale (tra cui amnistie per reati d’opinione, provvedimenti per consentire lo svolgimento di manifestazioni pacifiche a certe condizioni e la registrazione legale dei partiti politici diversi dal Baath di governo) non hanno intaccato quello zoccolo duro di provvedimenti in vigore in Siria fortemente limitativi del godimento dei diritti umani.

La prosecuzione delle proteste è stata affrontata con un ricorso eccessivo alla forza “including lethal force” contro i manifestanti ma anche contro la popolazione inerte. Da metà dicembre oltre 3.800 persone, oltre 5.000 secondo il rapporto delle Nazioni Unite[13], tra cui 200 bambini, sarebbero deceduti in relazione alle proteste; nella maggior parte dei casi si è trattato di civili colpiti dalle forze governative, talora anche durante cerimonie funebri di altre vittime (anche se non sono mancate perdite tra i militari).

Migliaia di persone sono state arrestate e hanno subito pratiche di tortura, della quale Amnesty International ha avuto anche testimonianza diretta dalle vittime. Le forze di sicurezza hanno effettuato veri e propri rastrellamenti e si ha notizia di mutilazioni inferte ai cadaveri e di crudeltà commesse ai danni di persone già ferite e del personale sanitario che le aveva in cura.

Pesanti limitazioni sono state poste agli operatori dell’informazione nazionali ed internazionali e anche i siriani all’estero impegnati in attività di solidarietà con la madrepatria sarebbero stati minacciati o aggrediti. Nel frattempo le sanzioni poste dalla comunità internazionale e il crollo degli introiti della voce turismo hanno messo in ginocchio l’economia. Mentre il Consiglio nazionale siriano costituitosi a ottobre opera come sponda per le forze interne ed esterne che mirano a rovesciare il regime di Assad, la roadmap concordata con le autorità siriane dalla Lega degli Stati arabi per uscire dalla crisi non ha avuto successo, dal momento che Damasco non ha fermato tutti gli atti di violenza contro i siriani ne’ liberato tutti coloro che sono detenuti a causa degli eventi attuali.

Il livello e la gravità delle violazioni dei diritti umani in Siria nel2011 non solo ha rappresentato un drammatico peggioramento di un quadro già critico ma configura un quadro di crimini contro l'umanità.

La situazione appare del tutto irrisolta ancora alla fine del 2011 e nonostante tutto il governo non ha mostrato alcun segno di allentamento della repressione[14].

Barhein

La situazione di relativa tranquillità del Barhein, considerato uno degli stati del Golfo più liberali – si legge nel Report - sotto la guida della famiglia Al-Khalifa, espressione della minoranza sunnita, si è interrotta con le proteste iniziate a febbraio 2011 e culminate il 14 marzo 2011 con l’intervento di forze armate e di polizia dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (in particolare Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti) a sostegno del governo del Bahrain[15].

La richiesta di maggiore libertà, giustizia sociale e riforme politiche è sostenuta anche da cittadini della minoranza sunnita, ma la stragrande maggioranza dei manifestanti era naturalmente costituita da sciiti il cui peso demografico (circa il 70% della popolazione secondo il rapporto) non ha corrispondenza nell’integrazione sociale e politica.

Il dilagare delle manifestazioni di protesta e la focalizzazione sulla richiesta di elezioni parlamentari suscettibili di portare al potere un partito sciita modificando l’equilibrio politico del paese, dove la minoranza sunnita esprime sia la famiglia regnante sia la classe dirigente, ha fatto si che la componente sunnita interna si organizzasse in un fronte pro governativo opposto ai dimostranti pro riforma.

Con l’intervento militare degli Stati del Consiglio di cooperazione del Golfo e l’imposizione dello stato di emergenza - che ha autorizzato le forze armate all’uso di misure estreme per porre fine alla rivolta – sono stati invasi i punti di aggregazione dei manifestanti e assaliti gli ospedali.

Gli “inaspettati livelli di violenza” messi in campo in risposta ad una mobilitazione assai estesa e partecipata dalla società civile con un’ampia presenza della componente femminile, ha soffocato la protesta e seriamente deteriorato il quadro dei diritti umani. Il Rapporto riferisce di 47 persone decedute in relazione alle proteste e di circa 2.500 arresti (di cui cinque morti a seguito di torture). Sono stati colpiti anche lavoratori stranieri. Sebbene lo stato di emergenza sia stato revocato dal re Hamad bin Isa Al-Khalifa il 1° giugno, con ritiro delle truppe dalla strade della capitale Manama, nel paese sono stati dislocati contingenti di polizia, si legge nel Report, intervenuti con proiettili di gomma, granate stordenti, fucili, bombe sonore e gas lacrimogeni in oltre 20 villaggi.

Davanti alla National Safety Court istituita con lo stato di emergenza si sono celebrati molti processi definiti “gravemente iniqui” che hanno colpito anche esponenti dei partiti sciiti di opposizione. A fronte dell’interesse della comunità internazionale per le accuse di tortura e decessi in custodia il re ha compiuto l’inedito passo di nominare una Bahrain Independent Commission of Inquiry(BICI), formata da cinque esperti internazionali.

Nel rapporto diffuso il 23 novembre 2011[16] BICI ha affermato che le autorità del Bahrein hanno commesso grandi violazioni dei diritti umani, in parte prodotti dalla diffusa cultura di impunità. La Commissione ha raccomandato, tra il resto, la costituzione di un organismo indipendente di tutela dei diritti umani incaricata, tra il resto, di individuare la catena di comando sottostante tali abusi per poterne punire i colpevoli. Il governo, per parte sua, ha annunciato il processo a membri delle forze di sicurezza accusati di uso eccessivo della forza durante le proteste.

Nonostante tali passi positivi il Report ascrive all’approfondimento delle tensioni tra la componente sunnita e la maggioranza sciita del paese (alimentata anche dalla posizione di Arabia Saudita e Stati Uniti, che ritengono l’Iran una sorta di mano nascosta dietro ai disordini) una potenziale minaccia anche in termini di tutela dei diritti umani. Viene inoltre ritenuto provocatorio il costume governativo di concedere la cittadinanza a cittadini stranieri di fede sunnita arruolati nei ranghi delle forze di sicurezza.

In conclusione, la condizione del Bahrein quale snodo di interessi di forze regionali ed internazionali interessate al mantenimento dello status quo, ha trattenuto dall’intervenire a mitigare la repressione i paesi che tradizionalmente appoggiano la famiglia dirigente Al-Kalifa, con il risultato di approfondire ulteriormente la pericolosa polarizzazione della società.

Iraq

L’Iraq, si legge nel Rapporto, ha vissuto una stagione di proteste contro la corruzione, il nepotismo e la presenza di truppe straniere, incentrate sulla richiesta di migliori servizi e di un miglioramento del quadro economico.

Le manifestazioni, svolte per tutto l’arco dell’anno in tutto il paese, non hanno avuto, tuttavia, quel carattere di massa e la connotazione antiregime che ha caratterizzato i movimenti della così detta “primavera araba”, e ciò in ragione del differente contesto politico. A differenza dei paesi della “primavera araba”, infatti, l’Iraq non usciva da decenni stabilità mantenuta con la forza bruta e la presenza ubiquitaria delle forze di intelligence e di sicurezza, ma da un periodo di guerre, sanzioni dagli effetti devastanti, intervento di truppe straniere, clima di violenza endemica e collasso economico; la stessa caduta di Saddam Hussein non è stata causata dalla pressione un movimento di massa “demanding democracy”.

La risposta delle autorità irachene alle manifestazioni iniziate nel febbraio 2011 si è caratterizzata, anche nel caso iracheno, per un uso eccessivo della forza che ha comportato uccisioni, ferimenti, arresti in molti casi illegali e spesso accompagnati da pratiche di tortura. Tra gli interventi repressivi a sfondo politico il Report rammenta quelli contro avvocati e giornalisti.

Tuttavia, sottolineando un profilo più positivo, il Rapporto richiama che la prosecuzione, a cadenza quasi settimanale da febbraio, di proteste pacifiche da parte della popolazione irachena rappresenta, nonostante lo scarso rilievo offerto dai mass media internazionali, un’evoluzione positiva se paragonata alla diffusa pratica di atti di violenza, spesso settari e indiscriminati, che ha caratterizzato per anni il panorama iracheno.

 



[1] Il rapporto è disponibile all’indirizzo web http://www.amnesty.org/sites/impact.amnesty.org/files/PUBLIC/MENA_Year_of_Rebellion.pdf.

[2]   Le elezioni per l’Assemblea costituente (23 ottobre 2011)  hanno visto la conquista maggioranza relativa (90 seggi su 217) da parte del partito islamista moderato Ennahda. Hamadi Jebali, segretario di Ennahda, è primo ministro dal dicembre 2011; presidente della Repubblica, eletto dall’Assemblea costituente il 12 dicembre, è Moncef Marzouki, leader del movimento di opposizione laico a Ben Alì del Congresso della Repubblica. Per una recente ricognizione del quadro istituzionale e politico della Tunisia v. la scheda paese politico parlamentare predisposta dal Servizio Studi (n. 9, 12 gennaio 2012).

 

[3]   Per una recente ricognizione del quadro istituzionale e della situazione politica interna egiziana si veda la scheda paese politico parlamentare n. 8 predisposta dal Servizio Studi aggiornata al 14 ottobre 2011.

[4]   Sino a 50.000 Lire Egiziane pari a circa 8.400 Usa.

[5]   Il 25 gennaio 2012 Amnesty International ha indirizzato un appello, sottoscrivibile dal pubblico, a Mohammed Tantawi leader del Supreme Council of the Armed Forces per chiedere la sospensione della pratica di sottoporre i civili a processo davanti a tribunali militari.

[6]   La membership libica del Human Rights Council era stata sospesa dall’Assemblea Generale il 1° marzo 2011 e ripristinata il 18 novembre 2011.

[7]   Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha istituito, con la risoluzione S 15/1 del 25 febbraio 2011 la UN Independent Commission of Inquiry on Libya incaricata di investigare le violazioni di diritti umani identificandone, se possibile i responsabili. Il Rapporto conclusivo è atteso per il 12 marzo 2012.

[8]   L’articolo 7 del comunicato costituzionale approvato il 3 agosto 2011 dal Consiglio nazionale transitorio libico, volto a delineare l’assetto transitorio delle istituzioni libiche, prevede l’affidamento allo Stato della salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, con l’impegno all’adesione ai documenti internazionali in materia, ma anche alla “promulgazione di nuove carte che riconoscano l’uomo come rappresentante di Dio sulla terra”. In proposito si rimanda al dossier del Servizio studi La “Costituzione provvisoria” libica, Documentazione e ricerche n. 273, 22 settembre 2011.

[9]   Sulla permanente criticità del quadro dei diritti umani sotto il nuovo regime libico si segnala il recente intervento dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Navi Pillay, che il 27 gennaio ha affermato che “la mancanza di controllo da parte della autorità centrali crea un clima favorevole alle torture e ai maltrattamenti” nei centri di detenzione in gran parte illegali.

[10] Per la ricognizione del quadro istituzionale yemenita e per una cronologia delle rivolte si rinvia alla scheda-paese politico parlamentare n. 10 (14 giugno 2011) predisposta dal Servizio Studi.

[11] Il rapporto è rinvenibile all’indirizzo web http://www.ohchr.org/Documents/Countries/YE/YemenAssessmentMissionReport.pdf

[12]   Rinvenibile all’indirizzo:

http://www.un.org/News/Press/docs/2011/sc10418.doc.htm

[13] Il Report of the independent international commission of inquiry on the Syrian Arab Republic è stato rilasciato il 23 novembre 2011 (http://www2.ohchr.org/english/bodies/hrcouncil/specialsession/17/docs/A-HRC-S-17-2-Add1.pdf).

[14] Per una recente sintesi del quadro istituzionale e della situazione politica interna siriana si veda la scheda-paese politico parlamentare n. 4 (21 dicembre 2011) predisposta dal Servizio Studi.

[15] Per il quadro istituzionale e politico si veda la scheda-paese politico parlamentare n. 17 (14 giugno 2011) predisposta dal Servizio Studi.

[16] http://files.bici.org.bh/BICIReportEN.pdf.