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I più recenti sviluppi della "Primavera araba" (Libia, Tunisia, Egitto. Yemen e Bahrein)

Libia

Il 22 novembre 2011 ha visto finalmente la nascita del nuovo governo libico guidato da Abdurrahim el-Keib, esperto di energia ed esponente, dalla metà degli anni settanta, del movimento di opposizione al regime del colonnello Gheddafi. Nonostante l'entusiasmo del nuovo premier in merito alla rappresentatività ampia dell'esecutivo appena formato, la situazione del paese registrava sempre una forte tensione tra le fazioni armate.Da rilevare la nomina al decisivo ministero del petrolio di un ex funzionario dell’ENI, Ben Yezza.

L'inizio di dicembre ha evidenziato ilperdurare del problema delle milizie che, ben oltre le necessità della lotta contro Gheddafi, hanno continuato a presidiare la capitale, dando vita a ripetuti scontri a fuoco. Tale problema – il CNT aveva posto l'ultimatum del 20 dicembre per il ritiro delle milizie da Tripoli, ma si è rivelato incapace di procedere a una requisizione delle armi – è apparso a lungo come uno dei principali della nuova Libia, che peraltro, nonostante la positiva disposizione del presidente del CNT Jalil e del premier el-Keib ad un un atteggiamento di perdono e riconciliazione verso chi ha combattuto contro la rivoluzione, si è vista anche stigmatizzare da un rapporto dell’ONU di fine novembre, che ha stimato in circa 7.000 il numero dei prigionieri nelle carceri libiche, tra i quali molte donne e bambini: nei confronti dei detenuti sarebbero state perpetrate anche torture.

Alla metà di dicembre vi è stata la fine delle sanzioni ONU e USA contro la Libia, mentre particolarmente rilevante per l’Italia è stata la visita del capo del CNT, Jalil, a Roma (15 dicembre): nel corso degli incontri romani – anche con il Presidente della Repubblica Napolitano – Jalil ha avuto un lungo colloquio con il Presidente del Consiglio, Sen. Mario Monti, al termine del quale è stata annunciata la rimessa in vigore del Trattato di amicizia italo-libico sospeso durante il conflitto, e contestualmente lo sblocco di 600 milioni di euro dei fondi libici a suo tempo congelati in Italia. Il 21 gennaio 2012 il presidente del Consiglio dei Ministri Mario Monti si è recato aTripoli, accompagnato dai Ministri degli esteri e della difesa: il premier ha sottoscritto un documento nell’ambito del tentativo di rafforzare il legame di amicizia e collaborazione tra i due Paesi nell’era post gheddafiana, la Dichiarazione di Tripoli”, siglato anche dal premier del Consiglio nazionale di Transizione, al-Keib. La dichiarazione assicura il sostegno politico del nostro Paese al processo di pacificazione nazionale. In particolare, l’accordo intende proseguire sulla “strada degli accordi firmati – si legge nel testo -, guardando al futuro con l'aiuto e il contributo nelle varie attività, attraverso commissioni tecniche ad hoc nei vari settori nei due rispettivi Paesi”. Contestualmente, è stata sottoscritta una dichiarazione d’intenti tra i rispettivi titolari della Difesa. Rispetto al trattato di amicizia siglato con il colonnello Gheddafi, il Governo libico ha fatto sapere che sarà preservata la parte relativa al risarcimento che il nostro Paese si è impegnato a versare per il periodo coloniale. Si conferma anche l’accettazione delle scuse da parte italiana. Nella delegazione governativa era presente l’amministratore delegato dell’ENI, Paolo Scaroni, che ha fatto sapere che la produzione petrolifera aveva ormai raggiunto i livelli precedenti alla rivoluzione.

Nel frattempo, tuttavia, la situazione d’instabilità della nuova Libia non accennava a migliorare: oltre al problema delle fazioni armate che non intendevano smobilitare, emergeva una forte contestazione verso i nuovi governanti, quasi sempre precedentemente collaboratori di Gheddafi, e perciò malvisti da chi effettivamente ha partecipato alla rivoluzione combattendo: è il caso del vicepresidente del CNT Ghoga, duramente contestato a Bengasi, dove la gravità della situazione ha indotto lo stesso presidente del CNT Jalil a fare pressioni per le sue dimissioni, annunciate il 22 gennaio. Mentre si è dimesso lo storico ambasciatore libico a Roma, Gaddur; è slittata l'approvazione della legge elettorale per l'Assemblea costituente, al centro di forti polemiche soprattutto per la previsione, da molti contestata, di una quota del 10% riservata alle donne.

A caratterizzare il post-Gheddafi, con il Consiglio nazionale di transizione palesemente incapace di garantire livelli accettabili di sicurezza, come anche di rispettare le scadenze istituzionali previste; sono emersi elementi di inquietante continuità con il precedente regime. Infatti, seppur con toni assai morbidi, le nuove autorità di Tripoli hanno fatto presente di non essere in grado di controllare le potenziali ondate di immigrazione verso l'Europa provenienti dall'Africa subsahariana e in transito nel territorio libico: mentre Gheddafi aveva usato questo argomento con toni palesemente ricattatori, i nuovi governanti libici hanno comunque richiesto con urgenza finanziamenti e mezzi per assicurare il funzionamento del sistema di sorveglianza delle frontiere e per poter ristrutturare i 19 centri di detenzione provvisoria già in essere sotto Gheddafi. Assai più preoccupante è quanto invece emerso sulle torture inflitte ai prigionieri accusati di lealismo verso il precedente regime: infatti esponenti di vertice di Médecins sans frontières hanno reso noto di avere constatato torture ripetute su prigionieri condotti nelle strutture della Organizzazione umanitaria per essere curati, in vista di nuovi maltrattamenti. Tutto ciò sarebbe stato facilitato dal fatto che leautorità centrali non controllavano la miriade di centri di detenzione esistenti, per la gran parte illegali. Amnesty International, dal canto suo, ha confermato le pratiche di tortura in atto in Libia, asserendo anche che in alcuni casi avrebbero provocato la morte dei prigionieri. Su queste denunce le autorità libiche si sono impegnate il 31 gennaio ad aprire un’inchiesta.

Il panorama politico libico è stato arricchito il 21 febbraio da una nuova formazione, l'Alleanza delle forze nazionali, concepita per porre in qualche modo un argine all'ondata islamista che ha caratterizzato tutti i paesi usciti dalla Primavera Araba, e contrapporsi, in particolare, al Partito islamico della riforma e dello sviluppo, nato nel gennaio 2012 a Bengasi per l'iniziativa di un gruppo di ulema, che vorrebbe porre la legge islamica quale unica fonte del diritto per la Libia. La nuova formazione politica, che fa capo all'ex premier del Consiglio nazionale di transizione Jibril e conta sull'appoggio di molte figure di moderati libici, deriva dal coordinamento di una trentina di partiti e di più di 400 organizzazioni della società civile nella prospettiva delle elezioni di giugno (poi slittate a luglio) per il Congresso nazionale, incaricato di redigere la nuova Costituzione e preparare vere e proprie elezioni politiche.

La situazione di persistente instabilità della Libia post-Gheddafi – evidenziata nel mese di febbraio anche da sanguinosi scontri fra tribù rivali per il controllo dei traffici illegali nel sud del paese - ha conosciuto all’inizio di marzo una drammatica accelerazione, che sembrava tra l'altro dare ragione alle nere previsioni dello stesso colonnello libico sul destino del paese dopo la fine della sua guida, visto come inevitabile approdo alla frammentazione territoriale e istituzionale, in modo analogo a quanto avvenuto alla Somalia dopo Siad Barre. Il 6 marzo infatti esponenti di tribù e gruppi armati della parte orientale del paese, la Cirenaica, hanno deciso a Bengasi di formare un Consiglio provvisorio per la Barqa - nome arabo della Cirenaica - all'insegna di rivendicazioni autonomistiche e federaliste, e in contrapposizione all'egemonia di Tripoli, accusata di essere in mano ad esponenti del passato regime riciclatisi nella nuova situazione della Libia. La presa di posizione di Bengasi si spiega nella prospettiva imminente dell'elezione del Congresso nazionale: in tale organismo è infatti previsto un meccanismo di leggera prevalenza dei rappresentanti della Tripolitania su quelli della Cirenaica. Inoltre, non meno importante sembrava l'intenzione della parte orientale del paese di acquisire il pieno controllo sulle ingenti risorse petrolifere ivi situate. A capo del neonato Consiglio provvisorio per la Barqa è stato nominato Ahmed al-Senussi, pronipote dell'ultimo re libico Idriss, incarcerato per 31 anni da Gheddafi dopo aver tentato nel 1970 un colpo di Stato contro di lui, e importante esponente del Consiglio nazionale di transizione, nonché recentemente insignito dal Parlamento europeo del Premio Sakharov. Il leader del CNT Jalil ha immediatamente reagito accusando alcuni paesi arabi di aver fomentato e finanziato la costituzione del nuovo organismo di Bengasi - va ricordato che più volte esponenti del CNT libico avevano lanciato accuse al Qatar di intromettersi pesantemente negli affari interni libici appoggiando alcuni gruppi contro il governo centrale di Tripoli. Jalil ha inoltre apertamente bollato la nascita del nuovo organismo di Bengasi alla stregua di una cospirazione contro il nuovo corso della Libia, minacciando di usare la forza per ristabilire il pieno controllo del CNT sul paese.

La preoccupazione delle autorità di Tripoli si è palesata con la richiesta alle Nazioni Unite di porre fine all'embargo sulle armi nei confronti della Libia, sì da permettere al governo centrale di stabilire il proprio controllo sull'intero paese; nonché con l'incontro al Cairo tra il maresciallo Tantawi e il capo di Stato maggiore libico el-Mankush per colloqui sulla sicurezza delle frontiere orientali libiche. 

Il 17 marzo è stato arrestato in Mauritania Abdallah Senussi, detto il macellaio libico, capo dell’intelligence libica sotto Gheddafi, ricercato dalla CPI per crimini contro l’umanità durante la rivolta del 2011, ma implicato anche in passato in molteplici episodi di terrorismo con centinaia di vittime. Il 26 marzo sono ripresi gravissimi scontri tribali nella parte meridionale del paese, con 150 morti e 400 feriti: il 31 marzo il capo del governo di transizione al-Keb ha annunciato il raggiungimento di un accordo per porre fine agli scontri.

L’8 maggio la ricorrente instabilità della Libia è stata confermata da decine di miliziani provenienti dalla città di Yafran, che hanno assalito la sede del governo libico a Tripoli, reclamando i compensi loro dovuti in quanto combattenti contro il regime di Gheddafi – compensi la cui corresponsione era stata in effetti iniziata dalle nuove autorità, ma poi sospesa per presunte irregolarità.

Alla metà di maggio Abdel Hakim Belhaj, capo del Consiglio militare di Tripoli e uno dei principali protagonisti della rivoluzione contro Gheddafi, si è dimesso dalla carica e ha annunciato il proprio ingresso a tutti gli effetti nella vita politica. Storico oppositore armato del regime libico, Belhaj è stato in contatto con gruppi islamici radicali sin da quando si schierò a fianco mujaheddin afghani contro l’invasione sovietica. Dopo l’11 settembre 2001 è stato accusato di rapporti con al Qaida e detenuto nel campo di Guantanamo, per essere poi consegnato al regime libico, che lo graziò nel 2010. Attualmente dietro Belhaj e i suoi sodali islamisti integrali vi sarebbe il forte sostegno del Qatar.

L’imminenza delle elezioni per l’Assemblea costituente, che avrebbero dovuto svolgersi il 19 giugno, ha scatenato in Libia violenze e rivendicazioni senza precedenti dalla caduta di Gheddafi. Il 4 giugno una milizia di Tarhuna, con il pretesto del rilascio di uno dei suoi leader apparentemente scomparso la notte precedente, ha preso d’assalto l’aeroporto internazionale di Tripoli, facendo uso anche di mezzi blindati. La situazione è poi tornata normale grazie all’intervento della milizia diZintan, che svolgeva una sorta di funzione informale di polizia nella capitale. Come previsto, poi, nella stessa giornata è stato ufficializzato il rinvio delle elezioni per l’Assemblea costituente, che sono state poi fissate al 7 luglio, rinvio giustificato anche da problemi procedurali, per l’impossibilità delle autorità di scrutinare adeguatamente le candidature (oltre 4000) per i 200 seggi a disposizione.

Il 5 giugno esponenti della fronda di Bengasi, che aveva nei mesi precedenti dato vita al Consiglio della Cirenaica contro Tripoli, hanno richiesto di modificare a loro favore la ripartizione dei seggi dell’Assemblea costituente, richiedendone 60, e hanno intanto messo in atto un blocco delle merci in provenienza dalla capitale, minacciando anche di estendere l’embargo alla circolazione di mezzi privati. Gli esponenti della Cirenaica rivendicano inoltre, ed è forse ancor più rilevante, il diritto di decidere sugli impieghi dei proventi collegati all’export di petrolio, abbondante nella Libia orientale.

Il terzo fronte di preoccupazione si è aperto alla stessa giornata del 5 giugno, con l’esplosione di un ordigno lungo il muro di cinta dell’ufficio di rappresentanza americano a Bengasi: a rivendicare è stato un gruppo ispirato alla prigionia dello sceicco cieco Omar Abdel-Rahman, che sta scontando l’ergastolo negli Stati Uniti per aver ideato una serie di attacchi terroristici - è considerato tra l’altro la mente dell’attentato del 1993 contro il World Trade Center -, nonché il tentato assassinio di Mubarak. L’attentato è stato ricollegato più in generale all’azione di al-Qaida nel Maghreb islamico (AQMI), che infatti molti esperti prevedevano avrebbe potuto dispiegarsi liberamente proprio dopo la rimozione di Gheddafi e il successivo caos nella situazione di sicurezza.

Il 7 giugno si è verificato il secondo sequestro di motopesca italiani da parte delle nuove autorità libiche, dopo quello del novembre 2011: infatti tre imbarcazioni della flotta di Mazara del Vallo sono state dirottate nel porto di Bengasi mentre si trovavano nel braccio di mare antistante alla città libica. Il fronte dei rapporti tra l'Italia e la nuova Libia è stato agitato nel mese di giugno anche in relazione alla questione dell'accordo sull'immigrazione che il Ministro dell’interno Annamaria Cancellieri ha firmato il 3 aprile nella sua visita a Tripoli, e che continuerebbe ad includere la clausola del respingimento in mare già applicata dal precedente governo suscitando numerose polemiche e la condanna, lo scorso febbraio, da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo. In particolare, la disposizione sui respingimenti è stata criticata in quanto non permetterebbe di distinguere tra immigrati clandestini con motivazioni di tipo economico e immigrati da zone del mondo che danno diritto a chi ne proviene al riconoscimento dello status di rifugiato. La rinnovata polemica è iniziata a seguito di un rapporto di Amnesty International del 15 giugno che denunciava l'accordo del nuovo governo italiano con le autorità libiche per la riammissione in quel paese di immigrati irregolari intercettati in mare. Il 20 giugno, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, il delegato dell'Alto commissariato ONU per i rifugiati nell'Europa meridionale, Laurens Jolles, ha nuovamente criticato l'Italia per non aver tenuto conto, negli accordi con la nuova Libia, della necessità di clausole di salvaguardia a protezione dei potenziali rifugiati. In entrambi i casi la reazione del governo italiano è stato decisa, nel senso di negare ogni continuità con la pratica precedente dei respingimenti in mare, e di affermare la piena conformità di quanto stipulato con Tripoli alle convenzioni internazionali e al rispetto dei diritti umani: ciò è stato fatto tanto dal Ministro per la cooperazione internazionale Andrea Riccardi, quanto dal Ministro degli Affari esteri Giulio Terzi.

Va peraltro ricordato che Bengasi si confermava centro di particolare pericolosità soprattutto nei riguardi di esponenti occidentali: negli ultimi mesi sono stati quattro gli agguati contro missioni internazionali, due dei quali il 6 giugno contro la rappresentanza USA nella città e l’11 giugno contro un convoglio diplomatico britannico che aveva a bordo l’ambasciatore Asquith, rimasto illeso, mentre due guardie del corpo hanno riportato ferite.

Il 24 giugno le autorità libiche hanno ottenuto il rimpatrio di Baghdadi el-Mahmudi, ex premier sotto Gheddafi, che era fuggito in Tunisia: la decisione di estradare Mahmudi ha aperto un grave conflitto istituzionale proprio a Tunisi tra il premier Djebali – islamico moderato – e il Presidente laico Moncef Marzouki, fortemente contrario per le scarse garanzia di equità giudiziaria e di incolumità che la Libia offrirebbe a Mahmudi.

Il 7 luglio si sono finalmente potute svolgere le elezioni per l'Assemblea costituente, precedute da grande preoccupazione per la situazione di caos e di mancanza di sicurezza nel paese. Ciò nonostante, malgrado sporadici problemi soprattutto nella parte orientale della Libia - nella serata del 7 luglio vi è stata una vittima della città di Ajdabiya - il voto si è svolto complessivamente in un clima di condivisione da parte della popolazione, e si è potuto votare nel 98% dei seggi, registrando una buona affluenza, pari al 62% degli aventi diritto. I primi dati hanno evidenziato un vantaggio della coalizione moderata di 40 formazioni politiche di liberali ed indipendenti guidata dall'ex premier del Consiglio nazionale di transizione Mahmud Jibril, che nei risultati preliminari diramati il 18 luglio si è confermato, con l’attribuzione alla coalizione di Jibril di 39 seggi sugli 80 destinati ai partiti – 120 seggi sono invece da attribuire a candidati indipendenti -, mentre il partito Giustizia e Ricostruzione, vicino ai Fratelli musulmani, ne avrebbe conquistati 17. Il carattere non tradizionale del voto libico è rafforzato dal sorprendente numero di donne elette nel primo gruppo, ben 33, ovvero più del 15% del totale dei componenti l’Assemblea Costituente.

Nella tarda serata dell'8 agosto 2012, con una cerimonia di alto valore simbolico alla quale hanno presenziato rappresentanti delle missioni diplomatiche straniere in Libia, oltre ai componenti del Cnt (Consiglio nazionale di transizione), del governo e di diversi partiti politici, si è consumato il passaggio di poteri dal Consiglio nazionale di transizione al Congresso nazionale libico uscito dalle elezioni del 7 luglio. Il Congresso dovrà nell'immediato scegliere un nuovo governo, e successivamente redigere la nuova Costituzione sulla base della quale si terranno poi elezioni legislative vere e proprie. Il presidente del Cnt Mustafa Jalil ha sottolineato – come ha fatto anche il nostro Ministro degli Esteri Giulio Terzi – il carattere storico del momento istituzionale vissuto dalla Libia, ma non ha nascosto il ritardo con cui sotto la sua presidenza il paese ha affrontato nodi tuttora difficili, come quello della sicurezza o quello del disarmo, in considerazione dell’imponente arsenale ereditato dal regime di Gheddafi.

Il 10 agosto si è proceduto alla nomina del presidente del Congresso nazionale libico, nella persona di Mohammed Magarief, di tendenza islamica moderata, il quale, dopo aver rivestito cariche di rilievo nel regime di Gheddafi, già nel 1980 se ne distaccava, dimettendosi dalla carica di ambasciatore in India e dando vita a una formazione politica di fuoriusciti libici denominata Fronte di salvezza nazionale libico.

Nonostante questi positivi sviluppi istituzionali, la situazione della sicurezza in Libia si è mantenuta piuttosto critica: dopo la bomba che il 3 agosto aveva causato un ferito nel centro di Tripoli, il 16 agosto vi è stata un’esplosione in prossimità del quartiere generale dei servizi segreti militari di Bengasi. Il 19 agosto l'ultimo giorno del Ramadan nella capitale è stato funestato dall'esplosione dapprima di un'autobomba vicino agli uffici del ministero dell'interno, che non ha provocato vittime, e subito dopo dallo scoppio di altre due auto imbottire di esplosivo nei pressi dell'ex quartier generale dell'accademia di polizia femminile, con a morte di due giovani automobilisti in transito al momento dell'attentato, e il ferimento di diverse persone. Quest'ultimo attentato è stato attribuito dal responsabile della sicurezza libico all'opera di sostenitori del passato regime. Il 20 agosto a Bengasi saltava in aria – per fortuna senza vittime - l’auto di un diplomatico egiziano: nelle stesse ore a Tripoli venivano arrestate 32 persone, ritenute legate al passato regime, in relazione agli attentati del giorno precedente. Il 2 settembre a Bengasi una bomba a bordo di un’auto, fatta esplodere a distanza, ha ucciso un colonnello dell’intelligence libica già in vista al tempo di Gheddafi, ferendo un altro militare che si trovava anch’egli a bordo dell’automobile.

 

 

 


Tunisia

In Tunisia il 23 ottobre si sono tenute le previste elezioni per l’Assemblea costituente: il panorama politico in vista dell’importante appuntamento elettorale, con l’eccezione del partito di orientamento islamico Ennahdha, modello di compattezza e organizzazione, si presentava caratterizzato da estrema frammentazione, con 116 partiti ufficialmente riconosciuti, 1.659 liste elettorali e 11.686 candidati. Delle liste elettorali, 828 erano state presentate da partiti, 655 da indipendenti e 34 da coalizioni. La consultazione, riconosciuta anche dagli osservatori come sostanzialmente corretta e svoltasi pacificamente, ha visto l’affluenza alle urne di quasi il 70% degli aventi diritto. Man mano che i risultati affluivano, si concretizzava la prevista vittoria di Ennahdha, che ha avuto più del 40% dei consensi, conquistando 90 dei 217 seggi dell’Assemblea costituente. La portata dell’affermazione del partito islamico si comprende appieno se si pensa che il secondo partito, il Congresso per la Repubblica di Marzouk, ha ottenuto solo 30 seggi. La formazione del governo è stata prevista dal leader storico di Ennahdha, Gannouchi, in tempi molto brevi, pur nella necessità per il suo partito di fare ricorso ad alleati per una compagine di coalizione, ma ciò che Gannouchi ha ritenuto più urgente è stato rassicurare alcuni ambienti avanzati dell’economia e della società tunisina sull’impatto dell’arrivo alla direzione del paese del partito islamico, che è stato presentato come moderato.

Mentre nel paese sono sembrati rafforzarsi gli elementi più integralisti, lanciati alla conquista delle principali moschee, ma anche impegnati in una serrata azione nelle università – che non ha mancato di destare reazioni di docenti e studenti -; il 19 novembre è stato raggiunto un accordo istituzionale tra le tre forze politiche uscite vincitrici dalle recenti elezioni per l’Assemblea costituente, per la ripartizione delle principali cariche. In base all’intesa, il partito islamico Ennahdha, unico vero trionfatore della consultazione, si è visto attribuire il premier nella persona del numero due Hamadi Jemali. A Moncef Marzouki, capo del partito di centro-sinistra Congresso per la Repubblica è andata la carica di Capo dello Stato, mentre il leader del partito di sinistra Ettakatol, Mustafa ben Jamar, è divenuto presidente dell’Assemblea costituente. L’accordo ha visto un compromesso istituzionale tra forze islamiche e forze sinora intransigentemente laiche, ed è apparso ispirato da un forte pragmatismo.

La Tunisia è tornata di interesse per il nostro paese in occasione della visita a Roma (15 marzo 2012) del primo ministro tunisino Jebali, durante la quale ha incontrato il proprio omologo, il sen. Mario Monti, nonché il Capo dello Stato Napolitano ed il Presidente della Camera, on. Gianfranco Fini. A breve giro ha fatto seguito la visita del Ministro dell'interno Cancellieri a Tunisi del 22 marzo, nel corso della quale ha incontrato il Ministro degli esteri tunisino e il proprio omologo nel paese arabo: al centro dei colloqui sono stati soprattutto i timori di una ripresa delle partenze di immigrati clandestini verso il territorio italiano, fenomeno paventato con il ritorno della buona stagione. La parte tunisina ha confermato gli impegni presi nell'aprile 2011 di evitare esodi via mare dalle proprie coste, a fronte di un impegno dell'Italia a fornire collaborazione in specifici settori - in particolare da parte tunisina sono stati chiesti aiuti nel settore della protezione civile, in termini di mezzi e di formazione del personale.

Il 23 marzo, l'onda di piena islamista è sembrata arrestarsi, quando è sostanzialmente fallito un raduno alla Kasbah di Tunisi dedicato alla volontà di far prevalere la legge coranica su quella civile, ponendo la Shaaria a fondamento della futura Costituzione tunisina. Un’ulteriore frenata alle istanze islamico-radicali è stata imposta dallo stesso partito maggioritario Ennahdha e dal suo leader Gannouchi, con la decisione di confermare la formulazione vigente dell’art. 1 della Costituzione, escludendo quindi di porre la legge coranica alla base di essa.

La tensione tra le autorità di governo – ispirate all’islamismo moderato di Ennahdha – e le correnti islamiche più fondamentaliste è proseguita il 23 e 24 aprile, quando il Ministero dell’interno è stato infine costretto a intervenire contro l’asfissiante assedio portato avanti da un mese e mezzo dagli estremisti islamici nei confronti dell’edificio e del personale della televisione di Stato tunisina, accusata di essere una roccaforte della tradizionale cultura laica del Paese: si è giunti a proibire sine die qualunque manifestazione nello spazio antistante all’edificio della televisione.

Significativa vittoria islamista è stata però alla metà di maggio la restituzione dello status di luogo di insegnamento alla Moschea di Zitouna, del quale l’istituzione era stata privata dal governo laico della Tunisia postcololoniale di Burghiba. Negli stessi giorni era a Tunisi il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, che il 17 maggio ha tenuto un discorso innanzi all’Assemblea costituente tunisina: il Presidente italiano ha tenuto a sottolineare il carattere esemplare della Tunisia per l’intero processo di cambiamento in atto nei paesi del Nordafrica, in un equilibrio tra fede religiosa e istituzioni che l’Italia intende doverosamente aiutare a mantenere, nella fiducia che il paese saprà intraprendere una rinnovata strada di sviluppo avvalendosi anche del proprio qualificato capitale umano.

Il 23 maggio la procura militare del Kef ha richiesto la pena capitale nel procedimento contro l'ex dittatore tunisino Ben Alì per la repressione delle sollevazioni popolari all’inizio del 2011, giudicando la sua responsabilità perfino superiore a quella di chi direttamente mise in atto la repressione nelle prime fasi della rivolta tunisina: infatti, nei confronti degli altri 22 imputati, la procura militare si è limitata a richiedere genericamente l'applicazione di pene massime, e ciò ha costituito per la difesa di Ben Alì motivo di opposizione alla richiesta di condanna a morte, che colpirebbe un semplice associato ai fatti in causa, mentre ne sarebbero esenti i diretti responsabili. Va peraltro ricordato che Ben Alì, con la moglie Leila Trabelsi e il più piccolo dei figli, si trova dal 14 gennaio 2011 in Arabia Saudita, ove né i cdecenni di condanne finora ricevute per ruberie e malversazioni, né tantomeno l'eventuale condanna a morte potrebbero raggiungerlo.

I giorni successivi hanno visto un ulteriore peggioramento del clima civile della Tunisia, ove le manifestazioni di prepotenza dei salafiti sono sembrati moltiplicarsi senza un'adeguata risposta da parte delle autorità, e ciò cominciava con evidenza a suscitare malumori anche nelle forze di polizia, espressi dal loro sindacato maggioritario, che ha richiesto al governo di poter finalmente agire in modo efficace per assolvere i compiti che il quadro istituzionale del paese assegna alla polizia. Vi sono stati inoltre segnali non meno preoccupanti di insofferenza anche da parte di forze laiche, ovvero musulmane, ma ispirate al principio della separazione tra fede e Stato, che non sopportavano più l'arroganza aggressiva degli integralisti islamici. Il vero nodo, però, sta proprio nel governo islamico moderato di Ennahdha, che è sembrato quasi paralizzato tra le opposte esigenze dell’affermazione della legalità e la scarsa volontà di colpire il movimento salafita, con cui evidentemente le radici comuni non sono poi tanto secondarie, e nonostante tale movimento critichi aspramente l’islamismo di governo per il suo carattere moderato. Del resto, tale carattere moderato resta ancora l'incognita che gli ambienti internazionali non riescono a mettere a fuoco in ordine alla politica interna tunisina, se è vero che il 30 maggio si è giunti addirittura a temere un assedio di attivisti del partito di governo contro la sede della più forte centrale sindacale tunisina, l’Ugtt, accusata di mettere in difficoltà l'esecutivo con le sue richieste nell'ambito del rinnovo dei contratti nazionali di varie categorie di lavoratori.

In tutto ciò, l'ambiguità del partito di governo non è sembrata certamente sciogliersi quando il 28 maggio è stata autorizzata ufficialmente l'attività politica del partito Hezb Ettahir, espressione politica dei salafiti: se è vero che questa apertura potrebbe favorire una progressiva istituzionalizzazione del movimento salafita - e ciò potrebbe credibilmente essere nei piani dell'élite direttiva di Ennahdha -, è altrettanto vero che da parte dei salafiti potrebbe aversi buon gioco a presentare questo successo come un segnale di debolezza della compagine istituzionale, e un volano per un rinnovato slancio verso la conquista del potere in Tunisia, o quantomeno l’imposizione di elevati livelli di osservanza della legge coranica a tutto il paese.

Dopo che il 23 maggio la procura militare del Kef aveva richiesto la pena capitale nel procedimento contro l'ex dittatore tunisino Ben Alì per la repressione delle sollevazioni popolari all’inizio del 2011, il 13 giugno Ben Alì ha subito due ulteriori condanne, la prima a venti anni di carcere e la seconda all’ergastolo.

Intanto i salafiti hanno perpetrato i massicci attacchi partiti l’11 giugno dal quartiere della Marsa (periferia della capitale), inizialmente diretti contro una galleria d’arte che esponeva opere giudicate immorali dagli integralisti, e successivamente estesi anche ad altre città della Tunisia. Dopo un’iniziale incertezza, le forze di polizia – che hanno registrato nei loro ranghi 65 feriti – si sono mosse, arrestando oltre 160 manifestanti, ed il 12 giugno è stato imposto il coprifuoco nella capitale e in altri sei governatorati, la misura più grave adottata dalla caduta di Ben Ali. Poiché i salafiti avevano fissato per il venerdì di preghiera (15 giugno) la data di una grande mobilitazione, le forze di sicurezza guidate dal Ministero dell’interno, in cooperazione con le Forze armate, hanno provveduto ad un massiccio presidio del territorio per il rispetto del divieto di manifestazione, e di fatto le previste dimostrazioni non hanno avuto luogo – va rilevato come solo da poche ore fosse in vigore una normativa più estensiva per l’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine, tale da permetterne l’uso nei casi di pericolo per ciascun agente o propri colleghi, ma più in generale per scongiurare attacchi contro le istituzioni; si tratta evidentemente di una risposta ai malumori espressi nei giorni precedenti dalla polizia per l’impossibilità di intervenire efficacemente contro le manifestazioni salafite.

Alla metà di luglio si è svolto il nono congresso del partito Ennahdha – il primo in condizioni di legalità -, dominante nel governo tunisino, al termine del quale il leader incontrastato Gannouchi si è visto rieleggere con il 72% dei voti: se non vi è stato a suo favore un plebiscito, certamente la sua leadership è rimasta incontrastata. Ciò che più importa, tuttavia, è che nel corso del congresso Gannouchi ha affrontato di petto le difficoltà emerse nelle ultime settimane nel governo del paese, annunciando un prossimo rimpasto della compagine governativa, la cui azione, anche per l'inesperienza del personale politico di Ennahdha, denuncia molteplici défaillances. In tal senso, l'obiettivo di Ghannouci sembra essere proprio il premier Djebali, che non ha saputo far fronte neanche all'ondata di grande caldo che ha colpito il paese. La prospettiva più probabile nell'immediato è quella di un massiccio ingresso, magari in posizione defilata, di uno stuolo di tecnocrati nel governo tunisino, con lo scopo principale di migliorare i rapporti tra il governo e gli ambienti economici, da più punti di vista allarmati per le prese di posizione delle ultime settimane di diversi esponenti dell'esecutivo.

 


Egitto

Mentre si avvicinava l'importantissima scadenza delle elezioni legislative a partire dal 28 novembre 2011, il dibattito politico si è incentrato in Egitto sulle conseguenze del giro di vite sulla sicurezza messo in atto dai vertici militari, detentori sostanziali del potere, che avevano disposto l'applicazione della legge di emergenza dopo i gravi disordini che il 9 ottobre avevano provocato la morte di 26 manifestanti copti in prossimità della sede della televisione di Stato egiziana. Proprio in relazione a questi avvenimenti veniva arrestato un noto attivista egiziano, Abdel Fattah, protagonista anche della mobilitazione su Internet: nei suoi confronti sono state elevate accuse di incitamento in relazione ai disordini del 9 ottobre, come anche di uso personale di armi e di avere tentato violenze contro un reparto militare. Il giovane attivista tuttavia ha abilmente saputo attirare l'attenzione sulla questione centrale collegata alla legge di emergenza - risalente all’assassinio di Sadat nel 1979, e della quale il movimento di Piazza Tahrir chiedeva da tempo l’abolizione -, ovvero la sottoposizione di civili al giudizio di tribunali militari, alle cui domande egli si è rifiutato di rispondere, ricevendo al proposito anche la solidarietà di due candidati alla Presidenza, ovvero el-Baradei e Sabahi. L'asprezza del dibattito è stata inoltre alimentata anche da iniziative di sciopero della fame e della sete nelle carceri da parte di manifestanti arrestati, come anche dalla morte di Essam Atta, un ventiquattrenne detenuto il cui decesso sarebbe stato provocato dalle torture susseguenti a un tentativo di attivare il suo cellulare dall'interno dell'istituto di pena.

Anche i copti, che l’11 novembre hanno manifestato nella capitale per commemorare i morti del 9 ottobre, hanno mostrato una forte diffidenza nei confronti delle forze armate, le quali, pur avendo imposto una stretta sulla sicurezza proprio dopo il massacro dei copti, da molti tra questi ne sono state ritenute dirette responsabili, e dunque scarsamente credibili nell'accertamento della verità.

Ormai nell’imminenza del primo turno delle elezioni legislative, è letteralmente esploso il contrasto tra le forze che hanno animato la rivoluzione contro Mubarak e i militari, temporanei custodi della sovranità del paese: inoltre ha destato forte opposizione un progetto di riforma costituzionale volto ad abolire i controlli del Parlamento sui bilanci e le attività delle forze armate egiziane, che si sono dette pronte a modificarlo solo parzialmente. Su questo sfondo il 19 novembre sono iniziati scontri in Piazza Tahrir, successivamente estesi anche ad altre località, come Suez, che sono proseguiti con alterne fasi, e il cui bilancio ammontava già il 21 novembre a una quarantina di vittime e diverse centinaia di feriti. Nella stessa giornata si avevano pertanto le dimissioni di Essam Sharaf, e il 24 novembre, dopo un'altra giornata di gravi disordini con nuove vittime, i militari affidavano all'ex primo ministro di Mubarak, Kemal al-Ganzuri, l’incarico di dare vita ad un nuovo governo. Cionondimeno la mobilitazione della Piazza Tahrir è proseguita, anche se le violenze si sono progressivamente attenuate in vista dell'appuntamento del primo turno delle elezioni parlamentari per la Camera Bassa (Assemblea del Popolo) confermato per il 28 novembre, e al quale, come già accaduto per esempio in Tunisia, si è presentata una variegata galassia di ben 55 formazioni politiche.

Dopo un lungo scrutinio sono finalmente stati resi noti (4 dicembre) i risultati del primo dei tre turni delle elezioni legislative, concernente un terzo dei governatorati del paese: il successo è andato, anche oltre le aspettative, aidue partiti islamici maggiori, l’espressione politica dei Fratelli musulmani, il partito Giustizia e Libertà (oltre il 36% dei voti), e la coalizione fondamentalista islamica (salafita) al-Nour (più del 24% dei suffragi). Poco seguito hanno avuto le liste della principale coalizione liberale, il Blocco egiziano (13,5%), come anche quelle degli islamici progressisti del Wasat (4,2%).

Il 7 dicembre ha visto la luce il governo di al-Ganzuri.

Il 16 dicembre si è completato lo svolgimento del secondo dei tre turni delle elezioni legislative, con un’affluenza di circa il 68% degli aventi diritto: secondo i due principali partiti islamici anche questo turno elettorale avrebbe marcato una loro netta affermazione. Frattanto però la violenza si è riaccesa nel centro del Cairo, con pesanti scontri tra forze di sicurezza e manifestanti in prossimità dei palazzi del Parlamento e del Governo: il bilancio, tra il 16 e il 17 dicembre, è stato di una decina di morti e ben oltre duecento feriti. Il nodo del potere reale nelle mani dell’esercito restava centrale nelle motivazioni dei manifestanti, e sembra relativamente indipendente dallo svolgimento regolare del programma elettorale previsto. 

Il 4 gennaio 2012 si è completato lo svolgimento dei tre turni delle elezioni legislative, con un’affluenza diminuita rispetto ai due turni precedenti. In attesa dei risultati elettorali complessivi è tornata in primo piano la questione della sorte dell’ex rais Hosni Mubarak, nel cui processo, in corso al Cairo, il 5 gennaio è stata chiesta dall’accusa la pena capitale, da comminare anche all’ex ministro dell’interno el-Adli e a sei suoi collaboratori: la condanna a morte è stata chiesta in relazione all’ordine di uccidere i manifestanti che sarebbe partito proprio da Mubarak nei primi giorni della contestazione di fine gennaio 2011.  

Il 14 gennaio uno dei principali candidati alle elezioni presidenziali del 2012, l'ex capo dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica e premio Nobel per la pace Mohammedel Baradei, liberale, ha annunciato il proprio ritiro dalla corsa presidenziale.

Il 19 gennaio il Ministro degli Esteri Giulio Terzi, in visita al Cairo, ha recato il pieno sostegno del nostro paese alla transizione democratica in corso in Egitto, ribadendo l’importanza dei legami culturali ed economici tra i due paesi. Il ministro Terzi ha incontrato tutti i vertici politici e religiosi egiziani, e ha tenuto a caldeggiare con rinnovato vigore la necessità del rispetto del pluralismo e delle minoranze sul terreno religioso.

Pur se non del tutto completi, i dati della complessa tornata elettorale per la Camera bassa egiziana hanno confermato nella quota proporzionale (332 seggi) la grande vittoria dei partiti islamisti, che hanno totalizzato circa tre quarti dei seggi, ovvero 127 ai Fratelli musulmani, 96 ai salafiti del Nour e 10 al Wasat. Sui circa trenta partiti presentatisi alla consultazione sono stati quindi tredici quelli che hanno ottenuto seggi: tra questi, assai lontani dai partiti islamici, i moderati e i liberali del Wafd e del Blocco egiziano, rispettivamente con 36 e 33 seggi. Anche la galassia di piccole formazioni politiche riconducibili al disciolto Partito nazionale democratico di Mubarak ha portato in Parlamento una quindicina di rappresentanti.

Dopo la sorpresa dei vertici militari, che hanno proceduto a graziare circa duemila detenuti già giudicati della giustizia militare, tra i quali il blogger e attivista copto Nabil; il 23 gennaio vi è stata la seduta inaugurale del Parlamento, che con maggioranza schiacciante ha eletto come proprio presidente Mohammed el-Katatni, appartenente ai Fratelli musulmani.

I segnali di miglioramento del clima politico egiziano, soprattutto in ordine al persistente ruolo di garanzia politica delle forze armate, sono stati subito smentiti il 1º febbraio quando lo stadio di Porto Said è stato teatro di un gravissimo episodio di violenza: i sostenitori della squadra locale, che pure aveva riportato un inatteso successo contro la squadra cairota della el Ahly, hanno invaso in massa il campo e scatenato una caccia all'uomo nei confronti dei tifosi ospiti, alla fine della quale si contavano 73 morti e circa 1000 feriti. Con il passare dei giorni la vicenda ha rivelato nuovi contorni, in quanto l'azione dei supporter di casa sarebbe stata favorita da una sostanziale inerzia delle forze dell'ordine, pure presenti allo stadio, che ha condotto i recenti vincitori delle elezioni legislative, i Fratelli Musulmani, a formulare accuse ai sostenitori del passato regime di aver consumato nello stadio di porto Said una vendetta pianificata. D'altra parte, va ricordato che gli ultras della el Ahly, seppure con motivazioni distanti da quelle politiche, avevano tuttavia partecipato sin dall'inizio ai moti di Piazza Tahrir, mettendo la propria forza organizzata al servizio dei manifestanti, soprattutto per una consolidata ostilità contro le forze di sicurezza del regime di Mubarak. Il ruolo delle forze di sicurezza nella vicenda è divenuto presto il fulcro di una polemica politica che ha visto parzialmente ridisegnarsi gli equilibri di potere, con la messa in difficoltà del tacito patto tra il Consiglio militare i Fratelli Musulmani. D'altra parte, gli ambienti della contestazione di piazza hanno accusato le forze armate di aver architettato un piano di scatenamento di tensioni per terrorizzare il paese e, mediante la richiesta di una stretta sulla sicurezza, nuovamente legittimarsi alla direzione di esso. Nell'immediato, la federazione calcistica egiziana ha sospeso qualunque partita sine die, mentre il 2 febbraio si è riunito il Parlamento in seduta d'urgenza, e ciò non avveniva da circa quaranta anni, mentre le strade e le piazze circostanti si riempivano progressivamente di manifestanti che urlavano slogan contro le forze armate. Dopo le prime misure contro le autorità di Porto Said e i vertici della federazione calcistica egiziana, la seduta parlamentare ha visto convergere le forze politiche sulla richiesta di dimissioni del ministro dell'interno Ibrahim e sull'inizio di un’indagine parlamentare sui fatti. Divisioni sono tuttavia emerse in merito all'attribuzione delle responsabilità ai militari, rispetto ai quali sia il partito espressione dei Fratelli Musulmani che quello salafita hanno evitato ogni accenno, mentre le forze armate sono state apertamente attaccate dalle forze laiche e liberali, come anche dai pochi deputati espressi dal movimento di piazza. La rapida evoluzione della situazione ha però fatto sì che il 3 febbraio, mentre progressivamente si addensavano intorno ai palazzi istituzionali scontri tra manifestanti e forze di sicurezza, con i primi morti, la Guida suprema dei Fratelli musulmani Mohamed Badie abbia attaccato in modo durissimo il potere militare, sostenendo che ufficiali conniventi con il vecchio regime hanno voluto punire il popolo e la sua rivoluzione. Badie ha proseguito richiedendo immediati provvedimenti di ristrutturazione del ministero dell'interno, come anche di dare soddisfazione alla piazza eliminando ogni privilegio nella detenzione degli esponenti del vecchio regime, e in particolare trasferendo Mubarak nell'ospedale del carcere.

Sulla scorta della maturazione di queste posizioni, il 6 febbraio la Commissione elettorale egiziana ha annunciato l'anticipo di un mese, rispetto a quanto previsto dal Consiglio militare, della data fissata per la presentazione delle candidature per le elezioni presidenziali, suscettibile di aprire la strada ad un anticipo della stessa consultazione.

In ogni modo, l'11 febbraio ha visto un grave insuccesso della giornata di disobbedienza civile proclamata da movimenti e attivisti egiziani, con l’unica eccezione della massiccia adesione di studenti e università. Il fallimento dell'iniziativa è dipeso soprattutto dal boicottaggio di essa da parte dei movimenti islamisti, tanto quello dei Fratelli Musulmani quanto quello dei salafiti, ma anche i copti non hanno aderito all'appello alla disobbedienza civile.

Comunque, un certo indebolimento della tacita intesa tra i Fratelli musulmani, detentori della maggioranza parlamentare, e l’elemento militare è stato confermato dall’episodio delle accuse contro esponenti di Organizzazioni non governative egiziane e straniere che aveva creato tensione con gli Stati Uniti, dopo il fermo al Cairo di sei cittadini americani – tra i quali il figlio del segretario federale ai trasporti Ray Lahood – che avevano partecipato per conto di tre Organizzazioni non governative americane USA al monitoraggio delle elezioni legislative e ad altre attività di carattere politico. Gli Stati Uniti avevano minacciato di non erogare più all’Egitto il cospicuo contributo militare, che supera il miliardo di dollari. Cionondimeno, i cittadini americani interessati, nel frattempo divenuti diciannove, erano stati rinviati a giudizio il 5 febbraio, con l'accusa di aver creato e gestito senza autorizzazione proprie sedi in Egitto, dando vita inoltre a programmi di formazione politica rivolti ad alcuni partiti nazionali – accuse che comportano una pena intorno ai cinque anni di reclusione. Successivamente tuttavia, il 29 febbraio, la vicenda veniva chiusa revocando il divieto per gli accusati di lasciare il territorio egiziano, ma proprio tale decisione, preceduta dalle dimissioni in blocco dei giudici del procedimento, scatenava durissime polemiche per la presunta ingerenza americana negli affari giudiziari dell’Egitto, che sarebbe stata favorita proprio dal governo e dai militari, storicamente legati agli USA e dipendenti dai loro finanziamenti. In questo clima il Parlamento egiziano convocava per l’11 marzo il premier e i ministri interessati a rispondere dell’intera vicenda. Lo stesso speaker del Parlamento el-Katatni definiva le pressioni sulla magistratura come inaccettabili.

Sul piano della transizione istituzionale va ricordato che il 29 febbraio il presidente della Commissione elettorale presidenziale ha diffuso l'annuncio dello svolgimento delle elezioni presidenziali il 23 e 24 maggio, con eventuale ballottaggio alla metà di giugno. La decisione di fissare la data delle presidenziali è rilevante anche perché essa ha comportato l'inizio del processo per la formazione dell'Assemblea costituente, la scelta dei cui componenti è demandata ai due rami del Parlamento in seduta congiunta.

Va rimarcato come in questa fase, che vedeva già delinearsi con chiarezza le candidature dell'ex Segretario generale della Lega araba Amr Mussa, del fuoriuscito dalla Fratellanza musulmana Abdel Fotuh (islamista moderato), del salafita Hazem Ismail, ma anche dell'esponente del vecchio regime Ahmad Shafik (premier negli ultimi giorni del regime di Mubarak); i Fratelli musulmani sembravano persistere nella decisione di non presentare un loro candidato, onde rassicurare gli ambienti internazionali sulla volontà di mantenere una dialettica aperta nel panorama politico istituzionale egiziano, senza occupare tutti gli spazi a disposizione.

Un altro episodio del confronto tra maggioranza parlamentare e governo si è avuto il 13 marzo quando il Parlamento, contraddicendo clamorosamente l’azione moderatrice che nelle stesse ore il governo esercitava nei confronti del riaccendersi delle tensioni tra Israele e la Striscia di Gaza; approvava all’unanimità un documento volto a una riduzione drastica del livello delle relazioni con Israele, fino a rimettere in discussione persino il Trattato di Camp David del 1979. La presa di posizione parlamentare - che metterebbe a rischio in una situazione economica assai difficile anche i due miliardi di dollari annui che l’Egitto riceve da Washington, e perciò non è stata presa troppo sul serio a livello internazionale – è sembrata una replica all’atteggiamento dell’Esecutivo di rifiutare ogni sindacato parlamentare sulla propria azione, negando altresì ai deputati il potere di sfiducia verso il governo.

Il 17 marzo è morto il papa copto Shenuda III, da tempo malato, aprendo al suo successore lo scenario di un più difficile rapporto con i vertici del potere egiziano, che sempre più si presume apparterranno all’islamismo, nel contesto delle divisioni emerse nella comunità copta in ordine alle reazioni dopo gli attacchi di cui è stata oggetto.

Alla fine di marzo anche l’Assemblea costituente – boicottata dalla minoranza laica e liberale - ha avuto un presidente islamista, ancora una volta nella persona del presidente del Parlamento Mohammed el-Katatni: anche l’elezione di questi rifletterebbe il persistente conflitto dei Fratelli musulmani con le forze armate. Inoltre, la disputa riguarderebbe anche la speciale autonomia costituzionale che i militari, titolari come in Iran di numerose attività economiche e industriali, non intendono perdere, mentre è duramente contestata dalla Fratellanza musulmana.

La stessa candidatura – seppur decisa con gravi contrasti – dell’esponente dei Fratelli musulmani el-Shater alle elezioni presidenziali di maggio, annunciata  il 1° aprile, e che smentiva il precedente proposito di non correre direttamente per le presidenziali per rassicurare gli ambienti internazionali, è sembrata inquadrarsi nella volontà di contrastare le candidature, legate ai militari e al passato regime, di Omar Suleiman – ex capo dell’intelligence sotto Mubarak - e Ahmed Shafik.

Va poi ricordata la visita in Egitto del Presidente del Consiglio Mario Monti (10 aprile), che non ha nascosto le difficoltà e le incertezze del processo di transizione in atto al Cairo, verso il quale peraltro l’Italia desidera porsi come punto essenziale di riferimento verso l’Occidente. Ricordato che il nostro Paese ha mantenuto in Egitto una consistente presenza economica pur frammezzo ai rischi della rivoluzione, il Presidente del Consiglio ha posto per la transizione i paletti dell’approdo necessario a una democrazia che rispetti i diritti delle minoranze, incluse quelle religiose.

Il 17 aprile la Commissione elettorale egiziana ha respinto in via definitiva i ricorsi presentati contro l’esclusione dalla corsa alle presidenziali da tre candidati importanti, ovvero l’ex capo dei servizi segreti di Mubarak, Omar Suleiman; il candidato dei Fratelli musulmani Khairat el-Shater e il predicatore salafita Hazem Ismail. Le candidature erano state bocciate per difetto di requisiti di diversa natura. I Fratelli musulmani hanno così deciso di presentare la candidatura alternativa del capo politico del loro movimento, Mohamed Morsi, mentre Ismail ha promesso di mobilitare i suoi seguaci fondamentalisti in una dura protesta. Quanto a Suleiman, questi sembra aver accettato pacificamente il verdetto della Commissione elettorale, ritirandosi dalla competizione. Sono pertanto rimasti in lizza per l’elezione alla Presidenza dell’Egitto – il cui primo turno è stato confermato per il 23 e 24 maggio - 13 candidati. E’ tuttavia rimasta indeterminata la questione dell’Assemblea costituente, sospesa de facto dalla Corte amministrativa per la schiacciante presenza islamista al suo interno, la cui ripresa di attività è però condizione indispensabile per giungere alla redazione della nuova Costituzione, obiettivo posto in maniera pressante dall’elemento militare.

La pressione islamista sui militari è ripresa quando il 29 aprile la maggioranza parlamentare facente capo ai Fratelli musulmani e il consistente gruppo salafita hanno deciso un’autosospensione dall’attività per reclamare le dimissioni del premier Ganzuri. Peraltro i salafiti hanno fortemente deluso le aspettative della Fratellanza musulmana quando, dopo l’esclusione dalla corsa alla Presidenza del loro candidato, hanno espresso preferenza per l’islamico moderato Abdel Fotouh – espulso dalla Confraternita proprio per la sua decisione di partecipare alle presidenziali quando i Fratelli musulmani non avevano maturato analoga impostazione -, piuttosto che per Mohamed Morsi.

Il contrasto tra la piazza - nella quale confluivano tanto i salafiti e altri islamisti moderati quanto i residui del movimento di Piazza Tahrir – e i militari si è tragicamente riacceso il 2 e il 4 maggio, quando nella capitale vi sono state numerose vittime e centinaia di feriti, con i dimostranti fatti oggetto anche di attacchi da parte di bande di piccola criminalità assoldate per motivi politici.

Il 23 e 24 maggio si è svolto il primo turno delle elezioni presidenziali, cui hanno preso parte 12 candidati: i risultati definitivi, annunciati il 28 maggio dalla Commissione elettorale dopo il respingimento di vari ricorsi per irregolarità e brogli, hanno visto la vittoria del candidato espressione dei Fratelli musulmani, Mohamed Morsi, con il 24,8 per cento dei voti, mentre al secondo posto si è registrata l’affermazione di Ahmed Shafik (23,7 per cento), già premier sotto Mubarak ed esponente di vertice delle forze armate: i due candidati si sono qualificati per il ballottaggio del 16 e 17 giugno. Va rilevato che l’affluenza alle urne (46,4%) è stata ben al di sotto di quella registrata alle legislative (52%). E’ apparso subito arduo il compito di Shafik, inviso tanto all'ala laica della politica egiziana, quanto, e assai più, agli esponenti del movimento rivoluzionario che, nonostante le numerose delusioni sul piano istituzionale già patite, sembravano conservare una certa presa rispetto ai movimenti di piazza – non a caso il quartier generale di Shafik, dopo la notizia del superamento da parte sua del primo turno delle presidenziali, era stato subito preso d'assedio da numerosi dimostranti, che volevano esprimere la propria rabbia per l'affermazione di un candidato che considerano quanto mai compromesso con il passato regime, nonché anche direttamente responsabile dell'assassinio di manifestanti prima della caduta di Mubarak.

Più agevole appariva il compito di Mohammed Morsi, che infatti ha subito avanzato una serie di aperture a vari gruppi a lui pregiudizialmente contrari o nei suoi confronti diffidenti: così, il candidato della Fratellanza musulmana ha escluso, in caso di propria vittoria, ogni monopolio islamista sulle vicepresidenze e altri posti di rilievo, preannunciando anche un governo di coalizione. Ciò in particolare dovrebbe garantire i cristiani copti, che sono una quota rilevante della popolazione egiziana, ma anche il movimento rivoluzionario, che potrebbe finalmente vedere qualche proprio esponente ai vertici del potere. Inoltre, Morsi ha garantito il diritto di manifestazione, facendo intendere di essere favorevole alla cancellazione definitiva delle leggi di emergenza. Per quanto concerne la componente femminile, Morsi ha escluso di voler imporre l'obbligo del velo a tutte le donne, come anche di voler loro impedire di lavorare.

Il 31 maggio è scaduta la legge sullo stato di emergenza, che era stata rinnovata dal Parlamento prima della rivoluzione egiziana, nel 2010; per la verità, il 24 gennaio 2012 vi era stata già una parziale revoca della legge di emergenza, nell'ambito dei festeggiamenti per il primo anniversario della caduta di Mubarak. La legge di emergenza, in base alla Dichiarazione costituzionale approvata in Egitto con referendum nel marzo 2012, potrà essere rimessa in vigore dal Parlamento solo per sei mesi, salvo referendum confermativo.

La fine della legge di emergenza, una delle principali rivendicazioni della piazza, è stata però salutata con favore solo dagli islamisti, tanto moderati quanto fondamentalisti; il movimento 6 aprile, invece, ha rimandato ogni valutazione all’effettivo comportamento delle forze di sicurezza.

Un banco di prova ancor più decisivo è stato quello della sentenza definitiva (2 giugno) contro Hosni Mubarak per la morte di oltre 800 manifestanti nel corso della rivoluzione che poi condusse alla sua caduta l'11 febbraio 2011: nonostante la richiesta della pena capitale da parte dell'accusa, la Corte d'assise del Cairo ha condannato Mubarak all'ergastolo, e la stessa sorte è stata riservata al suo ex ministro dell'interno el-Adly. Violente contestazioni sono state scatenate già in aula dalla restante parte del pronunciamento della Corte d'assise, che ha assolto sei collaboratori di el-Adly per insufficienza di prove e, soprattutto, ha giudicato prescritti i reati di corruzione e abuso di potere che erano stati contestati ai due figli di Mubarak Gamal e Alaa.

La sentenza - mentre Mubarak nel tragitto per rientrare nella prigione di Tora è stato ancora una volta colto da crisi cardiaca - ha scatenato l'ira di migliaia di manifestanti in Piazza Tahrir. Va però rilevato il significativo comunicato delle forze armate, che hanno annunciato la propria opposizione al sabotaggio della democrazia, a qualsiasi prezzo.

Mentre la mobilitazione in Piazza Tahrir è proseguita anche il 3 giugno, la Procura generale egiziana ha annunciato ricorso in Cassazione contro i verdetti del 2 giugno, che le manifestazioni in corso giudicano troppo indulgenti e profondamente segnati dall’impronta del passato regime.

Nei giorni successivi alla sentenza (2 giugno 2012) contro Mubarak e il suo clan, giudicata troppo indulgente e in qualche modo influenzata dai militari, la mobilitazione di piazza ha visto una progressiva convergenza di tutte le anime uscite dalla rivoluzione contro la candidatura di Shafik nell’imminente ballottaggio per le presidenziali – e sottotraccia contro i militari -, e sempre invocando un nuovo processo per Mubarak e il suo ‘entourage’.

Nonostante l’ultimatum posto dai militari, poi, il processo per l’elezione in Parlamento di una nuova Assemblea costituente – dopo l’annullamento della precedente per la preponderanza in essa degli islamisti – ha segnato a lungo il passo, riflettendo soprattutto l’opposizione irriducibile tra partiti laici e maggioranza islamista, per poi sfociare il 12 giugno nell’elezione di un’Assemblea in cui il peso dei membri parlamentari è rimasto di poco superiore al cinquanta per cento, mentre sono stati aperti spazi per la minoranza cristiano-copta, le donne, i giovani e vari esponenti della società civile.

Dopo soli due giorni, tuttavia, anche la nuova Assemblea costituente è stata messa in questione dalla clamorosa cancellazione del Parlamento da parte della Corte costituzionale, conseguente all’accoglimento di ricorsi riguardanti la parte maggioritaria del voto legislativo - conclusosi dopo una lunga procedura in febbraio -: questa, originariamente prevista per i soli candidati indipendenti, era stata poi anch’essa aperta a candidati partitici.

L’annullamento del voto nella parte maggioritaria ha poi avuto effetto, con il successivo decreto del Consiglio supremo militare, sull’intera consultazione elettorale, rendendo indispensabile una nuova sessione elettorale legislativa. Nella stessa giornata del 14 giugno la Corte costituzionale ha anche in via definitiva bocciato la legge a suo tempo approvata dal Parlamento per impedire la candidabilità agli ex esponenti del regime di Mubarak, con l’intento esplicito di sbarrare la strada della Presidenza ad Ahmed Shafik.

Nonostante la rilevanza di questi verdetti, che hanno comunque fatto gridare al golpe da parte della maggioranza parlamentare islamica, le prime reazioni sono state piuttosto contenute.

Il 17 giugno, con le urne per il ballottaggio delle presidenziali ormai in chiusura, la televisione pubblica egiziana ha annunciato l’adozione di una Dichiarazione costituzionale da parte del Consiglio militare, volta ad integrare il testo approvato in marzo con referendum: la Dichiarazione, resasi necessaria per la difficoltà di redigere una nuova Costituzione a causa della tormentata vicenda dell’Assemblea costituente, definisce i poteri del Presidente nei termini della nomina del Primo ministro e dei ministri e della convocazione delle elezioni, mentre ai militari, in assenza del Parlamento, restano i poteri legislativi e di bilancio.

L’intervento normativo dei militari riguarderebbe altresì i criteri per la formazione di una nuova Assemblea costituente, il che significherebbe l’affossamento anche di quella eletta il 12 giugno – che invece si è riunita il 18 giugno eleggendo a proprio presidente il presidente del Consiglio supremo della magistratura egiziana, Hossam el-Gheriyani, mentre i Fratelli musulmani accentuavano la loro opposizione al recente scioglimento del Parlamento. Nella serata del 18 giugno, poi, il maresciallo Tantawi ha annunciato la formazione di un Consiglio militare di difesa, destando ulteriore contrarietà nel composito fronte che teme il ritorno, attraverso i militari, di gran parte del regime di Mubarak.

Il 19 giugno, mentre sembrava delinearsi sempre più chiaramente la vittoria nelle presidenziali di Mohamed Morsi (con il 52% dei voti), tutte le componenti politiche egiziane contrarie al passato regime hanno marciato nella capitale contro lo scioglimento del Parlamento e la nuova Dichiarazione costituzionale, e tra di esse anche i Fratelli musulmani e i salafiti. Per la proclamazione ufficiale del risultato delle elezioni presidenziali si è però dovuto attendere una settimana, durante la quale, se cresceva la tensione della mobilitazione permanente di Piazza Tahrir, saliva altrettanto progressivamente l'attesa dei Fratelli musulmani per la vittoria del loro candidato Mohammed Morsi.

Tutto ciò avveniva nel contesto di una grande diffidenza della piazza verso l’atteggiamento delle forze armate, sospettate di manovrare – e la prova sarebbero stati lo scioglimento del Parlamento e la conseguente avocazione al Consiglio militare dei poteri legislativi – in modo da non giungere al previsto abbandono del potere a fine giugno.

Ciò allarmava tutti i gruppi favorevoli alla prosecuzione del processo democratico avviato con la caduta di Mubarak. In tal modo i giorni precedenti la proclamazione della vittoria di Morsi hanno visto convergere ancora di più le diverse anime della rivoluzione egiziana, una mossa servita ai Fratelli musulmani anche per smentire le voci di un accordo sotterraneo con i militari che non toccasse le prerogative da essi recentemente avocate, in cambio del riconoscimento della vittoria di Morsi. Segnali di sempre maggiore tensione nelle forze armate hanno accompagnato questo compattamento delle forze rivoluzionarie, fino a che il 24 giugno si è avuta la proclamazione ufficiale della vittoria di Morsi, che ha conquistato il 51,73 per cento dei voti, contro il 48,27 di Shafik: tuttavia non si è attenuata la tensione con i militari in ordine al Parlamento sciolto e alle modifiche alla Dichiarazione costituzionale con le quali se ne sono attribuiti i poteri.

Le reazioni internazionali all'elezione di Morsi al vertice dell'Egitto sono state generalmente favorevoli, sia da parte dei paesi occidentali - che hanno posto l'accento soprattutto sugli aspetti di completamento del processo democratico - sia da parte di paesi arabi e mediorientali, incluso l'Iran – con il quale l’Egitto non ha più relazioni diplomatiche dal 1980, cioè dalla vittoria della rivoluzione khomeinista. Con grande entusiasmo la vittoria di Morsi è stata salutata a Gaza, retta da Hamas, che deriva proprio da una componente della Fratellanza egiziana; ma anche dal Consiglio nazionale siriano in lotta contro il regime di Assad. Più sfumata è stata, comprensibilmente, la posizione di Israele, il cui premier Netanyahu ha espresso apprezzamento per il processo democratico egiziano e rispetto per l'esito di esso, non omettendo tuttavia di accennare alle aspettative israeliane di poter proseguire la cooperazione con l'Egitto sulla base degli accordi di pace fra i due paesi - che peraltro Morsi, subito dopo la proclamazione della sua vittoria, ha affermato di voler continuare ad onorare. Gli Stati Uniti, in particolare, si sono congratulati con il popolo egiziano per l’importante risultato democratico raggiunto con l'elezione del nuovo presidente, richiamando però parallelamente alla necessità del rispetto dei diritti delle donne e delle minoranze religiose, prima fra tutte quella dei cristiano-copti.

Nei primi giorni successivi all’elezione di Morsi,dopo qualche tensione, la questione del giuramento è stata sciolta il 29 giugno in Piazza Tahrir, ove con un discorso di ampia portata e con diversi ammiccamenti populistici il neopresidente ha fatto scaturire proprio dalla piazza la propria investitura; e sul piano formale il 30 giugno, giurando innanzi alla Corte costituzionale come richiesto dai militari, il cui capo, il maresciallo Tantawi, ha rispettato la previsione del passaggio dei poteri al nuovo presidente – poteri per ora peraltro attenuati dall’aggiunta alla Dichiarazione costituzionale adottata poco prima della chiusura dei seggi per il ballottaggio delle presidenziali.

I giorni seguenti hanno visto una serie di colpi di scena istituzionali, a partire dal decreto dell'8 luglio con il quale il neopresidente Morsi ha annullato la decisione del Consiglio supremo militare del 15 giugno che - sulla base della sentenza della Corte costituzionale che aveva annullato l'elezione di un terzo dei parlamentari - si era spinta fino a decretare lo scioglimento dell'intero Parlamento. La reviviscenza dell'Assemblea del popolo, peraltro, è stata limitata fino alle elezioni parlamentari che dovranno seguire entro due mesi dall'approvazione della nuova Costituzione - anche qui tuttavia è stata messa in dubbio la legittimità dell'Assemblea di 100 componenti riunitasi per la prima volta il 18 giugno, in quanto a sua volta designata dall’Assemblea del popolo sciolta subito dopo. Pur con questa limitazione, la decisione di Morsi ha aperto una prova di forza, con la Corte costituzionale a ribadire l’inappellabilità e la definitività delle sue sentenze e i militari tornati a proclamarsi guardiani della Costituzione e della legge, che tutte le istituzioni dello Stato sono tenute a rispettare. Va al proposito rilevato come una ventina di denunce siano state presentate contro Morsi da avvocati di diversa provenienza, con l'accusa di violazione delle leggi costituzionali. Il 10 luglio la Corte costituzionale sospendeva il decreto dell'8 luglio del presidente Morsi: nel contempo l'Assemblea del popolo, riunitasi solo per 12 minuti, decideva di rinviare alla Corte di cassazione la sentenza della Corte costituzionale sulla parziale illegittimità della legge elettorale che aveva consentito tra il 2011 e il 2012 l’elezione della medesima Assemblea. Il suo presidente, Saad Katatni, ha tenuto a precisare sottilmente che il decreto dell'8 luglio del presidente Morsi non ha colpito la sentenza della Corte costituzionale, ma la conseguente decisione adottata dal Consiglio militare, che ha determinato lo scioglimento dell'intero Parlamento.

In attesa dei decisivi verdetti della Corte di cassazione, che a partire dal 17 avrebbero riguardato numerosi ricorsi riguardanti lo scioglimento del Parlamento, lo scioglimento dell'Assemblea costituente e anche il Decreto presidenziale di ripristino dei poteri dell'Assemblea del popolo; il presidente Morsi ha stemperato i toni, affermando di voler rispettare tutte le sentenze e di voler avviare consultazioni ad ampio raggio per tentare di uscire dal difficile snodo istituzionale. Lo stesso giorno, l’11 luglio, Morsi si è recato in Arabia Saudita per la prima visita di Stato del suo mandato, assai delicata, poiché riguarda un paese che, notoriamente, aveva sempre sostenuto con forza il regime di Mubarak, e senz'altro teme una possibile estensione della Primavera Araba, come anche le ventilate ma non confermate aperture dell'Egitto all'Iran. Di ritorno dall'Arabia Saudita, il 13 luglio Morsi ha ricevuto il presidente tunisino Marzuki. Nonostante le loro diverse impostazioni politiche, i due capi di Stato hanno convenuto su una medesima linea sia nei confronti della crisi siriana che in ordine alla questione palestinese - e in particolare alla riconciliazione tra Fatah a Hamas, rispetto ai quali, nonostante l'oggettivo legame tra i Fratelli musulmani egiziani e Hamas, Morsi ha dichiarato di essere equidistante. Ben più rilevante è stato senz'altro il viaggio del Segretario di Stato USA Hillary Clinton in Egitto (14-15 luglio), dove ha incontrato sia il presidente Morsi che il vertice del Consiglio militare, il maresciallo Tantawi. La posizione americana è stata piuttosto netta nel sostegno completo al passaggio dell'Egitto verso un governo civile, con il ritorno dei militari al ruolo loro precipuo del mantenimento e della garanzia della sicurezza. Il presidente Morsi ha assicurato che l'Egitto continuerà a rispettare gli accordi internazionali, e ciò è stato salutato con favore dagli Stati Uniti, soprattutto in riferimento agli accordi di pace del 1979 con Israele. Hillary Clinton non ha mancato di ricordare al presidente Morsi la necessità del rispetto dei diritti delle minoranze e delle donne, e ha lasciato all'Egitto un contributo di 250 milioni di dollari a sostegno delle piccole e medie imprese egiziane nel difficile momento che il paese tuttora attraversa. La visita della Clinton è stata anche duramente contestata da diversi esponenti delle opposizioni egiziane: in particolare, mentre gli attivisti hanno criticato in radice l’ingerenza negli affari interni del paese che la visita rappresenterebbe, assai più preoccupante appare l'atteggiamento di alcuni esponenti della Chiesa copta ortodossa e della Chiesa evangelica egiziane, che hanno declinato l'invito ad incontrarsi con il Segretario di Stato USA il 15 luglio, poiché ravvisano nell'atteggiamento americano il sostegno unilaterale ai vincitori delle elezioni politiche e presidenziali, ovvero ai Fratelli musulmani.

Il 24 luglio, sorprendendo la maggior parte degli osservatori, il presidente Morsi ha indicato quale nuovo premier Hisham Kandil, un tecnico a capo del ministero delle risorse idriche, e che, come lo stesso presidente, ha studiato nelle università degli Stati Uniti. Kandil ha smentito di essere affiliato a movimenti religiosi, ed è stato presentato dalla presidenza come figura indipendente.

Il 26 luglio il Ministro degli esteri Giulio Terzi si è recato al Cairo, ove ha incontrato il neopresidente Morsi, ribadendo il sostegno italiano alla transizione democratica egiziana, a fronte di un rinnovato impegno del Cairo a garantire la sicurezza degli investimenti e delle numerose imprese italiane che operano nel paese arabo - si ricorda che l'Italia è il primo partner commerciale europeo dell'Egitto. I colloqui tra Morsi e il capo della diplomazia italiana hanno inoltre riguardato il difficile scenario di crisi della Siria, in merito al quale i due interlocutori hanno convenuto sulla necessità di avviare al più presto una soluzione mediante la formazione di un governo di transizione. Il Ministro Terzi ha tenuto a sottolineare la grande solidità dei rapporti tra Italia ed Egitto anche in riferimento alla vicenda del brevissimosequestro di cinque motopesca siciliani intercettati da una motovedetta a 25 miglia dalla costa egiziana e dirottati nel porto di Alessandria, il cui rilascio il Ministro Terzi ha praticamente ottenuto con effetto immediato, intervenendo sulle autorità del Cairo mentre si trovava sul piede di partenza per il rientro in Italia.

Il 2 agosto è nato ufficialmente il nuovo governo guidato da Hisham Kandil, composto da 35 ministri, dei quali otto sono i riconfermati - come ad esempio il maresciallo Tantawi alla difesa, nonché i ministri degli esteri e delle finanze. I Fratelli musulmani si sono visti attribuire cinque dicasteri, ovvero quelli dell'edilizia, dell'istruzione superiore, dell'informazione, delle politiche giovanili e della forza lavoro. Il ruolo dei ministri tecnici risulta evidente soprattutto nei dicasteri riguardanti materie economiche e di sviluppo, mentre alla giustizia è stato posto l'ex vicepresidente della Corte di cassazione. Il difficile equilibrismo mirante a far coesistere nella nuova compagine tecnocrati, militari ed esponenti politici ha lasciato fuori i salafiti, pur forti di quasi un quarto dei voti in Parlamento, che hanno deciso di rimanere all'opposizione del nuovo governo, per il quale si erano visti offrire soltanto un posto di ministro.

Il 5 agosto, in concomitanza di nuove gravissime tensioni tra Israele e la Striscia di Gaza, l'Egitto è stato coinvolto nelle violenze, con l'attacco a una postazione di frontiera proprio nei dintorni di Gaza, a seguito della quale gli assalitori – jihadisti o fiancheggiatori locali di al Qaida, che si muovono come in un’osmosi tra il Sinai e la Striscia - si sono impadroniti di due blindati egiziani, uccidendo ben 16 poliziotti. Uno del due blindati è stato poi distrutto dall'aviazione israeliana mentre, varcato il confine, si dirigeva verso un villaggio del Negev occidentale. Il presidente egiziano ha convocato con urgenza una riunione del Consiglio militare, disponendo l’immediata chiusura del valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto – del quale invece nel recente incontro con Morsi il premier di Hamas Haniyeh aveva auspicato la piena e definitiva apertura. Inoltre già il 7 agosto affluivano a Rafah imponenti mezzi meccanici, in attesa di iniziare la demolizione dei circa seicento tunnel sotterranei scavati tra Gaza e il territorio egiziano, fondamentali per gli approvvigionamenti della Striscia e per il passaggio di armi e miliziani al di fuori del rigido controllo israeliano imposto ai confini di Gaza dopo l’affermazione nel 2007 di Hamas.

È stata così nuovamente posta con grande drammaticità la questione della sicurezza del Sinai, territorio che in base al Trattato di Camp David del 1979 tra Egitto e Israele deve rimanere smilitarizzato, ma nel quale proprio perciò, soprattutto nella parte settentrionale, hanno potuto proliferare vari gruppi dell'estremismo islamico che già in luglio, con ogni probabilità, si erano resi responsabili dell'uccisione di due poliziotti egiziani. Vanno poi ricordati gli attacchi del 18 agosto 2011, quando una serie di attentati multipli provenienti dal Sinai e accuratamente congegnati hanno colpito civili e militari israeliani nella regione meridionale del Neghev, provocando nove morti, mentre perdevano la vita anche cinque soldati egiziani, colpiti da un missile israeliano durante un’azione di rappresaglia. Dall’inizio del 2011, infine, va ricordato che il gasdotto che porta il gas egiziano in Israele ha subito quindici tra attacchi e sabotaggi.

Gli eventi del 5 agosto, comprensibilmente, hanno provocato uno sbandamento in Egitto: lo stesso presidente Morsi nell'immediato non ha potuto non accusare il contraccolpo della propria appartenenza alla Fratellanza musulmana, a sua volta ritenuta assai vicina alla fazione palestinese di Hamas che governa la Striscia di Gaza, rivelatasi nella circostanza incapace di controllare le frange più estremiste - va peraltro precisato che in base a successive approfondite analisi del DNA degli attentatori poi uccisi dall’aviazione israeliana nessuno di questi sarebbe palestinese. Tuttavia, anche imputando ad egiziani l'azione terroristica, quasi sicuramente si tratta di elementi fuggiti dal carcere dopo la caduta di Mubarak, o addirittura di recente amnistiati dallo stesso Morsi in occasione del Ramadan. Tutto ciò sembrava preludere a una parziale riscossa dei militari – significativamente, i solenni funerali delle 16 guardie di frontiera (7 agosto) sono stati disertati sia dal presidente Morsi che dal premier Kandil. L’8 agosto l’Egitto lanciava l’operazione militare “Aquila” contro i terroristi basati nel Sinai settentrionale, ma, dopo poche ore, una riunione del presidente Morsi con lo stato maggiore militare si concludeva in modo sorprendente, con la rimozione in un sol colpo dei capi dell’intelligence, della Guardia repubblicana e della polizia militare, nonché del governatore e del responsabile della sicurezza del Sinai settentrionale.

Non è agevole peraltro tentare di istituire un collegamento tra questi clamorosi provvedimenti e quanto deciso il 12 agosto dal presidente Morsi, con la rimozione del ministro della difesa maresciallo Tantawi e del capo di stato maggiore, sostituiti da due generali, e, soprattutto, con l'abrogazione del decreto del Consiglio militare che aveva a suo tempo integrato la Costituzione vigente, limitando i poteri del presidente che proprio in quelle ore si stava eleggendo in Egitto. Dal punto di vista simbolico, anche se le forze armate hanno tenuto a minimizzare la portata dei provvedimenti, la mossa di Morsi è stata largamente percepita in Egitto come l'attestazione della fine dell'ipoteca militare sulle istituzioni del paese. Ambienti rivoluzionari giovanili hanno rilanciato, con la richiesta al presidente di non concedere le previste onorificenze a Tantawi e al capo di stato maggiore appena rimossi, richiedendo semmai di processarli per le numerose vittime che hanno caratterizzato la scena del paese anche dopo la caduta di Mubarak. In ogni modo, l'effetto più immediato dei provvedimenti del presidente Morsi è stata la sottrazione del potere legislativo ai militari, in una situazione tuttavia nella quale l'assenza di un Parlamento legittimamente costituito impedisce la riattribuzione del potere legislativo alla sua sede naturale, aprendo la strada scenari affatto imprevisti.

Analogamente, sul fronte giornalistico, ha destato preoccupazione la mossa della nuova Amministrazione egiziana che ha delegato la nomina dei direttori di giornali e di altri organi di informazione alla Camera alta (il Consiglio consultivo), con l'esito di scegliere prevalentemente appartenenti alla Fratellanza musulmana, non discostandosi in ciò dalle pratiche dell'epoca Mubarak. In questo scenario si è anche inserita la vicenda del giornalista del quotidiano indipendente al Dostour Islam Afifi, di tendenza nettamente contraria al nuovo corso egiziano e, si potrebbe dire, nostalgico del vecchio regime: Afifi, accusato di oltraggio al nuovo presidente Morsi, era stato arrestato in aula all'inizio del processo suoi nei confronti, ma poche ore dopo veniva rilasciato poiché il presidente Morsi aveva nel frattempo per decreto cancellato l'istituto della detenzione preventiva per reati a mezzo stampa.

Sul fronte del Sinai, mentre proseguiva l'operazione militare e di polizia nella parte settentrionale della penisola, con una certa sorpresa si è registrata una presa di posizione delle tribù beduine, che si sono dette disponibili a collaborare con il governo centrale nella ricerca di nascondigli di uomini e armi. In effetti, ciò potrebbe essere il risultato del nuovo approccio inaugurato da Morsi nei confronti del Sinai settentrionale, con l'invio in loco di una commissione composta da ex jihadisti per una mediazione con l'estremismo islamico locale - una mossa, peraltro, non priva di rischi secondari, poiché il riconoscimento dei jihadisti, implicito nel farne uno strumento della trattativa nel Sinai, potrebbe in un secondo momento rivelarsi un boomerang.

Il 30 agosto il presidente Morsi si è recato in Iran per il passaggio di consegne della presidenza triennale del Movimento dei non allineati al collega Ahmadinejad: non vi è dubbio sul rilievo della visita, la prima di un presidente egiziano in Iran dopo 32 anni di rottura delle relazioni diplomatiche soprattutto sul punto della pace raggiunta nel 1979 dall'Egitto con Israele, che la Repubblica islamica iraniana aveva sempre duramente criticato. Cionondimeno, su una questione cruciale nella regione mediorientale, quella della crisi siriana, non sembra esservi stato alcun avvicinamento, con l'Iran che continua ad appoggiare strenuamente il regime di Assad, mentre il presidente egiziano, proprio dalla tribuna del Vertice dei non allineati di Teheran, ha affermato con nettezza la liceità della ribellione al regime siriano, definito sanguinosamente oppressivo.

 

 

 


Yemen

Dopo una fase di rinnovata crisi successiva al rientro del presidente Saleh dal periodo di cure mediche in Arabia Saudita - rese necessarie dal suo ferimento nell'attacco al palazzo presidenziale consumato all'inizio di giugno del 2011 -, l'azione diplomatica martellante dei sei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, capitanati dall'Arabia Saudita, ha condotto il 23 novembre alla firma di un accordo di transizione, in base al quale Saleh ha accettato di uscire di scena dopo ben 33 anni al potere. Il piano ha previsto la permanenza in carica di Saleh a titolo meramente onorifico e solo per tre mesi, trasferendo tuttavia da subito i reali poteri al suo vice, Mansour Hadi, cui è stato dato il compito di costituire un governo di unità nazionale con le opposizioni e di fissare nuove elezioni presidenziali. L'accordo, generalmente salutato con favore a livello internazionale, non ha però dissipato del tutto le nubi che da quasi un anno gravavano sullo Yemen, poiché grave è apparsa l'ipoteca che sull'attuazione dell'accordo avrebbero potuto esercitare alcuni dei capi tribali rivali di Saleh, nonché quei comandanti militari - tra cui il fratellastro del presidente - unitisi all'opposizione. Va poi tenuto presente che l’ala più radicale dell’opposizione di piazza non ha accettato l’immunità che l'accordo di transizione ha accordato a Saleh in riferimento alle numerose vittime della repressione dei mesi precedenti.

Alcune di queste incognite si sono dimostrate ben operanti già il giorno successivo alla firma dell'accordo di transizione, quando cinque partecipanti a una manifestazione dell'opposizione contro l'immunità garantita al presidente Saleh sono stati uccisi dalle forze di sicurezza nel cuore della capitale yemenita. Va rimarcato che la manifestazione era rivolta anche contro i gruppi politici dell'opposizione, guidata dal Partito della riforma, che avevano accettato l'accordo del giorno precedente.

In ogni modo, il 27 novembre il capo delle opposizioni Mohamed Basindawa - già ministro degli esteri dal 1993 al 1994, prima della definitiva rottura col partito del presidente Saleh - è stato incaricato di formare nel termine di due settimane un governo di unità nazionale: il giorno precedente Mansour Hadi aveva firmato il decreto di anticipo delle elezioni presidenziali al 21 febbraio 2012. Significativamente, tuttavia, il presidente Saleh, con un atto che probabilmente non era più nei suoi poteri, già delegati a Mansour Hadi, e che dimostrava la sua volontà di continuare in qualche modo a giocare un ruolo nella transizione, ha decretato un'amnistia generale per i partecipanti alle contestazioni dei mesi precedenti, che infatti l'opposizione ha duramente criticato.

Il 10 dicembre il governo yemenita di unita' nazionale, guidato da Basindawa e composto da più di trenta ministri in rappresentanza dell'opposizione e del Congresso popolare generale – il partito al potere con Saleh - ha prestato giuramento.

Il 25 dicembre una nuova manifestazione delle opposizioni contro l’immunità a Saleh ha registrato a Sanaa non meno di tredici vittime per mano delle forze di sicurezza: il giorno successivo almeno due persone sono rimaste ferite nella capitale in scontri fra sostenitori del presidente e militari, fra cui diversi ufficiali.

Ad aggravare la situazione dello Yemen, dalla zona meridionale del paese, in particolare dalla provincia di Abyan e dal suo capoluogo Zinjibar, endemicamente teatro di scontri fra truppe governative ed esponenti della rete di Al-Qaida, localmente fortissima, si è registrata alla metà di gennaio 2012 una importante novità, quando gli integralisti islamici hanno iniziato a muovere da sud verso la capitale, conquistando quasi senza colpo ferire una cittadina a soli 170 km da Sanaa. Contemporaneamente, nella regione nordoccidentale dello Yemen (provincia di Hajja), in preda da anni a una rivolta degli sciiti, vi sono state almeno 25 vittime in scontri armati tra diverse tribù appartenenti a una minoranza religiosa sciita. Segnali di un probabile coinvolgimento degli USA nella vicenda yemenita si sono avuti quando una quindicina di appartenenti ad al Qaida nella penisola arabica sono morti il 31 gennaio in seguito ad un attacco di aerei senza pilota.

La seconda metà di febbraio ha visto realizzarsi quanto previsto dall'accordo di novembre per il passaggio dei poteri: infatti il 21 febbraio si sono svolte le elezioni presidenziali con un unico candidato, Mansour Hadi, dal 1994 vicepresidente sotto il regime del presidente Saleh. Alla vigilia del voto, e soprattutto il giorno stesso delle elezioni, vi sono stati incidenti che hanno provocato alcune vittime nel sud del paese, dove è presente anche un movimento di tipo separatista che contesta la riunificazione dello Yemen avvenuta nel 1990. Ciononostante il risultato delle elezioni, cui hanno partecipato oltre sei milioni e mezzo di yemeniti, ha visto un plebiscito a favore di Mansour Hadi, con il 99% dei voti.

Il 25 febbraio, giorno del giuramento di Mansour Hadi ma anche del ritorno di Saleh dagli Stati Uniti, dove aveva trascorso un periodo di cure, ha visto un sanguinoso attentato nel sud dello Yemen, rivendicato da Al-Qaïda, in cui hanno trovato la morte 26 persone, quasi tutti appartenenti alla Guardia repubblicana. Il 27 febbraio, infine, si è consumato il passaggio pieno dei poteri da Saleh a Mansour Hadi, il cui incarico presidenziale avrà una durata di due anni, durante i quali si dovrà procedere a redigere una nuova Costituzione e a preparare elezioni multipartitiche.

Nonostante il completamento delle procedure per il passaggio dei poteri, i ripetuti atti di violenza e il terrorismo nel sud del paese denunciano la difficoltà della situazione dello Yemen, che oltre al separatismo e al terrorismo di Al-Qaïda nella parte meridionale deve fare i conti con la rivolta degli sciiti nel Nord. Inoltrel'ex presidente Saleh è sembrato a lungo ancora in grado di esercitare una pesante ipoteca sul futuro politico del paese, visto che è comunque rimasto a capo del suo partito, e che molti dei suoi familiari conservano posizioni di rilievo nell'apparato dello Stato e soprattutto nelle forze armate.

In particolare, nel paese ha assunto sempre maggiore rilevanza il problema del radicamento di al-Qaida nella zona meridionale: il nuovo governo yemenita ha riproposto - con il pieno sostegno degli Stati Uniti -, la lotta alle attività di al-Qaida nel sud del paese tra le proprie priorità, ma proprio il giorno in cui ha prestato giuramento il presidente Mansour Hadi, il 25 febbraio, un attentato suicida provocava a Mukalla, nel sud dello Yemen, 26 morti. L'episodio più grave era tuttavia quello del 5 marzo, quando in un attacco di al-Qaida ad una base militare della provincia di Abyan sono stati uccisi circa duecento soldati governativi, e molti altri sono stati fatti prigionieri. Dal 9 all'11 marzo una serie di attacchi portati da droni statunitensi ha provocato la morte di almeno 64 presunti membri di al-Qaida nella zona meridionale del paese.

Dal 9 al 12 aprile rinnovati combattimenti hanno opposto truppe governative e appartenenti ad al-Qaida nel sud del paese, con un bilancio di 185 morti.

La campagna delle truppe governative nel sud del paese contro al Qaida, che nelle successive settimane avrebbe complessivamente portato alla morte di 150 appartenenti alla rete terroristica, ha provocato una feroce reazione quando il 21 maggio un soldato yemenita legato ad al-Qaida ha portato a termine una missione suicida, facendosi esplodere nel bel mezzo dei ranghi delle prove di una parata militare, e provocando in questo modo quasi 100 morti e oltre 200 feriti. Ciononostante, nel mese di giugno l’offensiva governativa, appoggiata dalle milizie locali dei comitati di resistenza popolare, ha avuto successo, e gli appartenenti alla rete terroristica sopravvissuti hanno dovuto lasciare gran parte del territorio conquistato, per rifugiarsi sulle montagne, dalle quali conducono ancora sporadici attacchi, restando peraltro preda degli attacchi di droni americani. Il 4 agosto un attentatore suicida ha colpito una riunione commemorativa di miliziani nella città di Jaar – già una delle roccheforti di al Qaida -, provocando la morte di 45 persone e ferendone quasi altrettante, proprio mentre un drone USA colpiva un’auto nello Yemen orientale, uccidendo cinque presunti terroristi.

Il 29 luglio il nostro paese è stato in qualche modo coinvolto nella instabile situazione yemenita, quando Alessandro Spadotto, un carabiniere italiano addetto alla sicurezza dell'Ambasciata a Sanaa, mentre era libero dal servizio e si trovava in un negozio, è stato rapito da uomini armati, che non sarebbero terroristi ma criminali appartenenti ad un gruppo tribale, il cui capo rivendica dal governo yemenita l’immunità dalle accuse di banditismo e un risarcimento in denaro. Nella stessa mattinata vi era stato l'assalto contro il ministero degli interni, attuato da un centinaio di militanti fedeli all'ex presidente Saleh che chiedono di essere reintegrati nelle forze di polizia, successivamente rientrato - non vi sarebbe alcun legame con l'episodio che ha interessato il carabiniere italiano –, ma solo per infuriare nuovamente il 31 luglio, con la morte di otto persone e il ferimento di numerose altre. Nella mattinata del 31 luglio il carabiniere ha comunque potuto inviare un SMS tranquillizzante alla fidanzata, mentre il 1° agosto il capo dei rapitori ha annunciato la liberazione di Spadotto entro due giorni, dandovi effettivamente corso il 2 agosto, e consentendo al carabiniere italiano il rientro in patria il giorno successivo.

 


Bahrein

L'apparente pacificazione del piccolo regno del Golfo Persico dopo i grandi tumulti del febbraio-marzo 2011, avvenuta anche grazie all'intervento di truppe inviate dall’Arabia saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, non sembra aver risolto il problema di fondo delle rivendicazioni della maggioranza sciita nei confronti della minoranza sunnita che esprime anche le autorità di governo, a partire dal re Abdullah al-Khalifa. Nonostante i segnali di buona volontà del sovrano, come l'accettazione del rapporto della commissione d'inchiesta indipendente che ha denunciato moltissimi abusi nei confronti dei manifestanti del 2011, non vi è stato l’auspicato decollo di un dialogo nazionale per la risoluzione dei problemi sul tappeto.

Conseguentemente, il 14 febbraio 2012, in occasione dell'anniversario del maggior episodio della contestazione del 2011, si sono verificati nella capitale scontri assai duri tra le forze dell'ordine e centinaia di dimostranti. Il 9 marzo, poi, decine di migliaia di manifestanti sono tornati in piazza nei pressi della capitale per ribadire le loro richieste di giustizia e democrazia, e chiedere la fine della discriminazione verso gli sciiti, il riequilibrio nella distribuzione delle ricchezze e il rispetto delle normative internazionali in materia di diritti umani.

Una nuova occasione di mobilitazione è stata offerta ai manifestanti dalla conferma per il 22 aprile della gara di Formula Uno sul circuito nazionale di Sakhir, dopo vari tentennamenti. Il maggiore blocco dell'opposizione sciita ha subito annunciato una settimana di manifestazioni fino allo svolgimento del Gran Premio. D'altra parte, la monarchia al potere ha interpretato la conferma dell'appuntamento sportivo come un'espressione di fiducia internazionale per la capacità del Bahrein di offrire stabilità e sicurezza. In ogni modo, nonostante un'ottantina di arresti preventivi negli ambienti sospettati di voler organizzare manifestazioni in concomitanza del Gran Premio, vi sono stati nei giorni precedenti lo svolgimento della gara manifestazioni caratterizzate da scontri anche gravi tra le forze dell'ordine e i dimostranti, che hanno provocato una vittima, oltre a numerosi feriti e un centinaio di arresti.

Il 18 maggio gli sciiti del Bahrein, unitamente a decine di migliaia di correligionari in Iran, hanno manifestato per contrastare un progetto che mirerebbe all’unificazione politica del Bahrein con l’Arabia Saudita, quale primo atto di un più vasto disegno volto a realizzare l’unione politica della regione. Gli sciiti del Bahrein non possono accettare tale prospettiva, che farebbe gravitare gli equilibri geopolitici fortemente a favore delle monarchia sunnite del Golfo, a danno dell’Iran, al quale invece la maggioranza della popolazione del Bahrein guarda con crescente interesse.