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Questione israelo-palestinese: i più recenti sviluppi

L'Autorità nazionale palestinese il 23 settembre 2011 ha presentato al Consiglio di sicurezza dell’ONU – dove però in caso di votazione è scontato il veto USA -, in occasione della sessione dell'Assemblea Generale apertasi quattro giorni prima, la richiesta di riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese unilateralmente proclamato nei confini precedenti la guerra dei Sei Giorni del 1967.

Nei giorni precedenti vi era stato un frenetico lavorio diplomatico dei paesi occidentali per impedire una mossa così diretta da parte dell’ANP: peraltro questi stessi paesi presentavano notevoli divisioni al loro interno, con Israele e Stati Uniti nettamente contrari, e l'Unione Europea oscillante tra il cosiddetto fronte pro-palestinese (Belgio, Cipro, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Portogallo, Spagna e Svezia) e il gruppo di Stati che preferivano insistere per la ripresa dei negoziati diretti tra Israele e l’ANP, senza atti unilaterali come la richiesta di riconoscimento internazionale (Germania, Italia, Olanda, Polonia e Repubblica ceca).

L'indecisione in seno all'Unione europea era poi accresciuta dall'indeterminatezza della posizione britannica e di quella francese: per la verità la Francia il 21 settembre ha tentato in extremis, già nella sede dell'ONU a New York, di rilanciare una proposta di concessione ai palestinesi della qualifica di Stato non membro osservatore, attualmente accordata solo alla Città del Vaticano, che darebbe comunque ai palestinesi un'ampia facoltà di partecipazione e di accesso a tutte le istanze delle Nazioni Unite. Va osservato peraltro che anche nel fronte palestinese, all'entusiasmo dell'ANP, che controlla la Cisgiordania, ha fatto riscontro un certo distacco e scetticismo da parte di Hamas, che domina invece nella Striscia di Gaza, e non guarda benevolmente all'eventuale successo dell’iniziativa di Abu Mazen.

Peraltro, l'offensiva diplomatica dell’ANP non si è limitata a presentare la richiesta di riconoscimento in seno alle Nazioni Unite, ma dopo rapidi negoziati ha ottenuto il 31 ottobre, da parte della Conferenza generale dell'UNESCO, l’ammissione della Palestina a far parte a pieno titolo dell'Organizzazione: anche in questo frangente l'Europa si è spaccata, con uno schieramento, capitanato da Parigi, favorevole all’ammissione dei palestinesi, mentre la Germania ha votato in senso contrario e il nostro Paese si è astenuto.Tra l'altro, l'ammissione a pieno titolo all'UNESCO consentirà anche ai palestinesi la presentazione della candidatura di molti importanti siti locali allo status di siti appartenenti al patrimonio culturale dell'umanità, con vantaggi per la conservazione di questi beni culturali e impulso ulteriore al turismo.

A fronte di questi sviluppi favorevoli all'ANP, gli Stati Uniti hanno bloccato la loro contribuzione di 60 milioni di dollari, pari a oltre 1/5 del bilancio totale dell'UNESCO, mettendo in seria difficoltà l'Organizzazione, mentre il Governo israeliano ha annunciato – incontrando il disappunto degli USA e dell’Unione europea - l'accelerazione per la costruzione di circa duemila alloggi negli insediamenti ebraici a Gerusalemme est e in Cisgiordania, congelando altresì il trasferimento all'ANP di entrate fiscali che a vario titolo le spettano in base agli Accordi di Oslo del 1993.

Corrispettivo di questo difficile rapporto con l'ANP è stato l'accordo, reso noto l'11 ottobre, raggiunto con Hamas per la liberazione (avvenuta il 18 ottobre) del soldato israeliano Gilad Shalit - prigioniero a Gaza dal 2006 - in cambio di un migliaio di detenuti palestinesi, mediato decisivamente dall'Egitto e con il contributo turco. L’accordo ha previsto la liberazione di una prima tranche di 477 prigionieri palestinesi, attraverso un delicato processo in undici fasi; per altri 550 prigionieri, i cui nomi non sono stati rivelati, è stabilito il rilascio entro i due mesi successivi.

Sebbene l’accordo non riguardasse alcuni importanti prigionieri palestinesi, tra i quali Marwan Barghouti, esso ha suscitato reazioni di malcontento per la gravità dei crimini commessi dai palestinesi proposti per la liberazione: la maggior parte di questi erano stati condannati all’ergastolo, alcuni per essere stati riconosciuti colpevoli di attentati nei quali avevano perso la vita decine di persone. Circa duecento tra i prigionieri liberati non hanno potuto comunque fare ritorno alle loro case in Cisgiordania ma sono stati mandati in esilio a Gaza, in Qatar o in Turchia. Un sondaggio pubblicato il 17 ottobre sul quotidiano israeliano Yediot Aharonot rivelava tuttavia che il 79% degli israeliani sosteneva lo scambio dei prigionieri.

La stessa leader dell’opposizione parlamentare israeliana incarnata dal partito Kadima, Tzipi Livni, ha attaccato duramente il governo, poiché a suo dire l'accordo con Hamas avrebbe gravemente indebolito il potere di deterrenza della sicurezza israeliana, e comunque rendeva necessario riequilibrare l'indubbio maggior prestigio apportato al movimento integralista padrone di Gaza con misure volte a rafforzare la leadership palestinese di Abu Mazen.

In ogni modo, l'accordo per la liberazione di Shalit ha influenzato positivamente anche la vicenda di Ilan Grapel, un giovane di cittadinanza israeliana e americana arrestato nel giugno 2011 in Egitto con accuse di spionaggio: Grapel è stato scambiato con 25 detenuti egiziani condannati per reati comuni quali il traffico di armi e droga.

Peraltro, i rapporti di Israele con la Striscia di Gaza sono rimasti assai tesi, e hanno visto alla fine di ottobre ripetuti lanci di razzi palestinesi in risposta a 'raid' aerei di Israele. La tensione con Gaza è riesplosa dal 7 dicembre, quando una serie di azioni mirate dell’aviazione israeliana, anche con l’uso di droni, ha provocato la morte di diversi attivisti di Hamas: per tutta risposta il sud di Israele è stato investito tra l’8 e il 9 dicembre da una pioggia di razzi proveniente dalla Striscia. E’ da notare positivamente che nella contingenza la diplomazia egiziana ha cercato di esercitare un ruolo moderatore, favorito anche dal ritorno dell’ambasciatore israeliano nella sua sede del Cairo, dopo l’assalto patito dai manifestanti egiziani tre mesi prima.

La posizione di Israele - dove intanto è cresciuta la mobilitazione dei giornalisti per i rischi che correrebbero la libertà di espressione e le garanzie delle minoranze sulla scorta di alcune iniziative legislative - è stata resa vieppiù critica dal ritrovato accordo tra Abu Mazen e il leader in esilio di Hamas Meshaal, incontratisi il 24 novembre al Cairo per la seconda volta nel 2011; nonché dai trionfi elettorali dei partiti islamico-moderati in tutta l’area nordafricana, dall’Egitto alla Tunisia e fino al Marocco.

Le preoccupazioni manifestate dagli intellettuali per l’imminente approvazione di leggi giudicate liberticide hanno poi trovato una clamorosa sponda nello stesso Capo dello Stato Shimon Peres, il quale ha dichiarato di provare al riguardo sentimenti di vergogna, e di temere che alcune delle norme più platealmente antiarabe possano innescare una nuova spirale di violenze.

Il riavvicinamento tra le maggiori fazioni palestinesi è proseguito nonostante alcuni problemi ancora da risolvere, che per qualche tempo hanno ritardato la prospettiva della formazione di un governo unitario: si tratta in particolare della liberazione dei rispettivi detenuti politici e, soprattutto, della formazione di un unico comando per tutte le forze di sicurezza. La maggiore spinta per una riconciliazione interpalestinese viene senza dubbio dalle trasformazioni del panorama politico regionale in seguito alla Primavera Araba, che hanno determinato la sparizione dei maggiori sostegni di Abu Mazen (Mubarak) e del capo di Hamas Meshaal (che a Damasco non può più contare sull'impegno e l'attenzione del regime di Assad, impegnato in una dura lotta per la sua stessa sopravvivenza).

Fonti di stampa già verso la fine di dicembre 2011 sono tornate a riferire dell'interesse del capo di Hamas per l'ingresso nell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), organizzazione storica generalmente accreditata a livello internazionale come rappresentante legittimo ad esclusivo dei palestinesi. Ben più clamoroso è apparso poi l'annuncio, diffuso il 21 gennaio 2012, della volontà di Khaled Meshaal di non ricandidarsi per un ulteriore mandato a capo di Hamas. Dopo di ciò il 6 febbraio è stato firmato nella capitale del Qatar, anche grazie alla mediazione delle locali autorità, un accordo che ha finalmente previsto la formazione di un governo unitario tra le fazioni palestinesi, di carattere tecnico, ma guidato dal presidente dell’ANP Abu Mazen: il compito principale del nuovo governo riguarda la preparazione di nuove elezioni parlamentari e presidenziali, la cui data però, per l'intanto, è slittata sine die, mentre in precedenza era stata fissata per il mese di maggio 2012. Altro compito del nuovo governo tecnico, che non è stato poi formato, avrebbe dovuto essere quello della ricostruzione nella Striscia di Gaza, che tuttora porta i segni dei numerosi scontri con le forze armate israeliane, e soprattutto dell'operazione Piombo Fuso di tre anni fa.

L'importanza di nuove elezioni unitarie si comprende meglio se si ricorda che proprio le elezioni parlamentari del 2006, con la vittoria di Hamas e, l'anno dopo, la cacciata dell’ANP da Gaza, evidenziarono una spaccatura che pareva irreversibile tra le fazioni palestinesi. Assai importante appare anche la questione della fissazione delle elezioni per il Consiglio nazionale palestinese, l'organo legislativo dell’OLP, che attualmente non comprende rappresentanti di Hamas e che non si riunisce più dal 1998. L'accordo di Doha ha ricevuto nei giorni successivi l'assenso delle autorità palestinesi in Cisgiordania, con una riunione congiunta del Comitato esecutivo dell'OLP e del Comitato centrale di al Fatah: anche da Gaza, nonostante forti critiche espresse da parlamentari e da altri settori di Hamas, è stato confermato l'impegno a rispettare il patto sottoscritto nel Qatar.

Le reazioni alla rinnovata intesa interpalestinese sono state diverse: il premier israeliano Netanyahu ha sostenuto che l'accordo testimonia l'abbandono della via della pace da parte di Abu Mazen, poiché Hamas è un'organizzazione terroristica che ha nel suo statuto la distruzione di Israele. L'Unione Europea ha adottato toni più morbidi, dicendosi pronta a continuare il proprio sostegno all'Autorità nazionale palestinese, purché il nuovo governo si impegni ad astenersi da metodi violenti, a riconoscere Israele e a perseguire una soluzione negoziale dell'annoso conflitto che sfoci nella creazione di due Stati.

Constatando che la reciproca diffidenza impediva persino l’esecuzione, a Gerusalemme, dei necessari lavori di consolidamento ad una rampa in legno posta tra il Muro del Pianto e la Moschea di al-Aqsa; il governo israeliano il 12 dicembre ne ha decretato la chiusura, suscitando però vibrate proteste da parte araba, poiché si sarebbe in tal modo modificato lo status quo dei luoghi santi musulmani ivi ubicati, non più raggiungibili dal territorio sotto controllo israeliano. La riapertura, due giorni dopo, della rampa, non ha avuto effetti granché distensivi, poiché nel frattempo proseguiva l’ondata di clamorose azioni degli ebrei ultraortodossi contro alcune moschee, già iniziata da alcune settimane, e parallela ad altre dimostrazioni di forza – una delle quali addirittura contro la base della brigata Efraim dell’esercito israeliano – poste in atto dalle frange più oltranziste dei coloni ebrei. Il governo di Tel Aviv ha reagito nominando comandante supremo delle forze armate in Cisgiordania un noto avversario dei coloni, il generale Nitzan Alon.

Se è poi vero che il 18 dicembre è stata realizzata l’ultima fase prevista dagli accordi che hanno portato alla liberazione di Gilad Shalit, con il rilascio di altri 550 detenuti palestinesi; è altrettanto vero che nella stessa giornata è stata autorizzata la costruzione di mille nuovi alloggi a Gerusalemme est, gelando l’entusiasmo palestinese per la cerimonia di ammissione a pieno titolo della Palestina nel seno dell’UNESCO. Dieci giorni dopo il municipio di Gerusalemme ha dato via libera alla costruzione di altri 130 appartamenti nella periferia orientale della città, che fa parte dei territori rivendicati dai palestinesi: inoltre in Cisgiordania, previo accordo delle autorità occupanti con il Consiglio degli insediamenti ebraici, otterrà la legalizzazione un avamposto di coloni in precedenza considerato tra quelli "selvaggi".

In questo difficile contesto, una timida ripresa dei colloqui di pace israelo-palestinesi a partire dal 4 gennaio 2012 ha presto segnato il passo, senza registrare alcun progresso nonostante l'attiva presenza dei rappresentanti del Quartetto (USA, ONU, UE e Russia) e la mediazione della Giordania, divenuta assai più presente negli ultimi tempi nella questione palestinese.

Per quanto riguarda la politica interna israeliana, va ricordato che il premier Netanyahu ha ottenuto il 31 gennaio con un’ampia maggioranza la riconferma alla guida del Likud, in seguito alle primarie del partito che guida dal 1993 ininterrottamente. Si è trattato della quinta conferma al vertice per Netanyahu che però, nonostante la netta vittoria, si è trovato di fronte come unico rivale il rappresentante della fazione più radicale dei coloni, Moshe Feiglin, la cui influenza nel Likud è in ascesa.

Per quanto invece concerne l'opposizione di Kadima, l’inizio del 2012 ha fatto registrare un forte dissenso nei confronti della leader Tzipi Livni, contestata soprattutto dall'ex ministro della difesa Mofaz e dall'ex capo della sicurezza interna Dichter. Peraltro i sondaggi non inducevano a nessun ottimismo, poiché il partito, in picchiata nel gradimento dell'opinione pubblica israeliana, in caso di immediate elezioni veniva dato in calo di quasi due terzi nella rappresentanza parlamentare. Più in generale, l'opposizione israeliana non ha dato l'impressione di un efficace contrasto al governo Netanyahu, ma nemmeno è riuscita a far proprie le grandi proteste sociali dell'estate del 2011, per non parlare dei numerosi scandali che hanno toccato l'apparato del partito. Tutti questi nodi sono venuti al pettine alla fine di marzo, quando la guida di Kadima è passata nelle mani di Shaul Mofaz, che ha sconfitto nettamente la Livni (62 contro 38 per cento delle preferenze) in un’assise del partito segnata peraltro da bassa partecipazione, e dopo la quale vi sono stati segnali di un possibile sfaldamento della compagine fondata per iniziativa di Ariel Sharon.

Alla fine di febbraio 2012 nuovi motivi di scontro tra israeliani e palestinesi erano sorti in relazione alla gestione della Spianata delle Moschee a Gerusalemme, che secondo gli islamisti vedrebbe una pressione del fondamentalismo israeliano tale da mettere a rischio i luoghi santi musulmani – i toni spesso esagerati di alcune frange palestinesi sono in effetti talvolta corroborati da farneticanti prese di posizione di carattere biblico da parte dell’oltranzismo ebraico.

Dopo solo pochi giorni è tornata a divampare la violenza tra il territorio israeliano e la Striscia di Gaza, quando il 9 marzo l'aviazione di Tel Aviv ha eliminato lo sceicco al-Kaisi, capo di una formazione oltranzista minore fiancheggiatrice di Hamas: nei giorni successivi sono stati lanciati decine di razzi e colpi di mortaio dalla Striscia contro il territorio israeliano, mentre l'aviazione di Tel Aviv effettuava diverse ondate di missioni aeree, dichiarandone il carattere assolutamente mirato nei confronti di appartenenti a formazioni (soprattutto la Jihadislamica) impegnate in vario modo nella minaccia al territorio israeliano. Il 12 marzo il bilancio complessivo vedeva già 25 vittime palestinesi, con numerosi feriti, ma anche il coinvolgimento di diversi civili israeliani, colpiti dai pochi razzi sfuggiti al formidabile sistema di missili intercettori Iron Dome. Gli scontri sono tuttavia cessati dopo che nella notte tra 12 e 13 marzo è stata raggiunta tra le parti una tregua, con la determinante mediazione dell’Egitto – in questo paese peraltro, anche per ragioni di politica interna, il Parlamento ha unanimemente richiesto di raffreddare le relazioni con Israele, procedendo altresì a rivedere tutti i trattati bilaterali –incluso quello di Camp David del 1979 – e a sospendere le forniture egiziane di gas.

Vale senz'altro la pena di soffermarsi ulteriormente sul breve riaccendersi della crisi tra Israele e la Striscia di Gaza, poiché in questo caso è emersa una consistente differenza tra il comportamento di Hamas e quello di gruppi come la Jihadislamica o i Comitati di resistenza popolare, direttamente impegnati nel lancio di ben 250 razzi, alcuni dei quali si sono spinti a 50 km dal territorio della Striscia. D'altra parte Hamas ha potuto vantare il sostegno dell'Egitto e il fatto che i gruppi combattenti abbiano alla fine dovuto accettarne la mediazione. Non va assolutamente dimenticato, tra l'altro, che il gruppo sunnita di Hamas è un’emanazione dei Fratelli musulmani egiziani e diffida di una formazione come la Jihadislamica la quale, pur essendo espressione del medesimo campo sunnita - ciò è inevitabile in riferimento alla popolazione palestinese – si ispira al modello della milizia sciita libanese Hezbollah ed è sostenuta piuttosto apertamente dall'Iran. Per quanto concerne l'Egitto, l'interrogativo più importante sollevato dalla vicenda di metà marzo riguarda la misura nella quale il Cairo potrà in futuro conservare il proprio ruolo di moderazione e mediazione del conflitto israelo-palestinese, quando i militari avranno definitivamente lasciato le leve del potere come previsto dal calendario istituzionale: a tale interrogativo può fornire una prima risposta l'atteggiamento del parlamento egiziano sopra descritto, anche se occorre in prospettiva collegarlo alla maggiore responsabilizzazione politico-diplomatica implicita nei rapporti diretti fra Stati. Va infine registrata anche una certa soddisfazione da parte israeliana, determinata dal fatto che si è nuovamente constatato il ruolo moderatore dell'Egitto a più di un anno dalla caduta di Mubarak, e soprattutto dall'ottima prova fornita dal sistema di difesa antimissilistica Iron Dome, che ha permesso di salvare molte vite israeliane, e non ha costretto Tel Aviv ad un nuovo intervento di terra all'interno della Striscia di Gaza quale quello che si verificò con l'operazione “Piombo Fuso” all'inizio del 2009. Va inoltre segnalato che nei numerosi raid aerei su Gaza quattro quinti dei palestinesi uccisi sarebbero stati effettivamente appartenenti a milizie combattenti.

Il 22 marzo Israele ha dovuto poi confrontarsi con un nuovo problema, quandoil Consiglio dei diritti umani dell'ONU, per la prima volta dal suo insediamento, ha disposto una missione di inchiesta sull'impatto degli insediamenti ebraici sui Territori palestinesi occupati. L'iniziativa è venuta dai palestinesi, che avevano presentato un progetto di risoluzione sulla creazione di una missione d'inchiesta internazionale, indipendente, che indagasse sulle conseguenze degli insediamenti israeliani tanto dal punto di vista politico ed economico, quanto sociale e culturale, nei confronti del popolo palestinese. La risoluzione è stata approvata con 36 voti a favore sui 47 Stati membri del Consiglio dei diritti umani, mentre 10 Stati - tra cui l'Italia - si sono astenuti, e gli Stati Uniti hanno votato contro. Al proposito, il rappresentante USA a Ginevra ha chiarito che la posizione dell'Amministrazione statunitense sugli insediamenti non è affatto cambiata, poiché gli Stati Uniti continuano a considerarli un grave ostacolo sulla via della pace, ma affidano solo a negoziati diretti il superamento del lungo stallo attuale, non ad altri tipi di iniziative. In ogni modo, quattro giorni dopo l'approvazione della risoluzione il governo israeliano ha annunciato di rompere ogni rapporto con il Consiglio dei diritti umani: per conseguenza, la Commissione incaricata dell'inchiesta sull'impatto degli insediamenti ebraici nei Territori occupati non ha avuto neanche la possibilità di ingresso in Israele. La decisione del governo di Tel Aviv è giunta al culmine di una serie di contrasti con il Consiglio dei diritti umani dell'ONU, che risalgono al rapporto Goldstone, quando appunto tre anni fa il giudice Richard Goldstone venne incaricato dal Consiglio di scrivere un rapporto sull'operazione “Piombo Fuso” a Gaza. Del resto, prima dell’annuncio dell’interruzione delle relazioni con il Consiglio dei diritti umani, Netanyahu aveva fatto rilevare che più di un terzo delle decisioni finora adottate dal Consiglio hanno riguardato Israele (39 atti), mentre solo tre decisioni hanno avuto ad oggetto la Siria e appena una l’Iran. Dal canto suo il Ministro degli esteri israeliano Lieberman ha evidenziato come i palestinesi debbano comprendere l'impossibilità di portare avanti forme di cooperazione con Israele e nello stesso tempo dar vita a scontri e boicottaggi nei suoi confronti in varie sedi internazionali.

La linea politica dell'Italia sulla questione israelo-palestinese è stata espressa con chiarezza dal Presidente del Consiglio Mario Monti in occasione del suo viaggio pasquale nel Medio Oriente: il Presidente Monti ha ribadito che l'Italia è per la soluzione di due Stati e due popoli, israeliano e palestinese, in pace l'uno accanto all'altro nei confini del 1967. Secondo l'Italia questa soluzione, che non ha alternative, deve essere perseguita mediante il negoziato come unica modalità, e ciò è stato espresso sia al premier israeliano Netanyahu che al presidente dell’ANP Abu Mazen. Il Presidente Monti ha altresì precisato che i confini del 1967 potranno anche essere derogati, per aderire realisticamente all’attuale situazione sul terreno, ma ciò dovrà avvenire comunque con intese tra le parti.

Il 17 aprile avrebbe potuto segnare una data importante, poiché dopo più di un anno senza contatti diretti si è verificato un incontro di ,due delegazioni, israeliana e palestinese a Gerusalemme: tuttavia l'incontro è stato declassato a livello meramente tecnico, in quanto il premier palestinese Salaam Fayyad non si è mosso da Ramallah, poiché, secondo indiscrezioni di stampa, sarebbe stato per lui troppo imbarazzante un incontro con Netanyahu nel mentre nei Territori occupati si celebrava la Giornata del prigioniero, con migliaia di palestinesi nelle carceri israeliane a iniziare uno sciopero della fame a oltranza.

Nei giorni immediatamente successivi è balzata in primo piano nuovamente la questione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme est, con il premier Netanyahu apparentemente stretto fra le due opposte esigenze  da un lato di ottemperare alla legge, e dall’altro di venir meno a tale adempimento sulla spinta dei partiti religiosi e della destra del Likud, fieramente contrari in pratica a qualunque sgombero di coloni - non va dimenticato che dall'altra parte della barricata si è posto il ministro della difesa Barak, fortemente intenzionato ad esempio a far eseguire l'ordinanza della Corte suprema di Gerusalemme di sgombero di due edifici nell'insediamento di Beit El, nei pressi di Ramallah, in quanto costruiti su terre di proprietà privata di cittadini palestinesi. In realtà, successivamente, Netanyahu sembra aver posto fine agli indugi, schierandosi piuttosto nettamente, nella sostanza, dalla parte dei coloni e degli insediamenti: ciò è stato chiaro ad esempio il 24 aprile, quando è stata resa nota la decisione di una sanatoria nei confronti di tre avamposti ebraici in Cisgiordania, finora formalmente non riconosciuti, e che interessano un totale di 200 famiglie. Inoltre, Netanyahu si è poi rivolto alla Corte suprema per impedire che il 1º maggio si desse luogo allo sgombero di alcuni edifici nell'insediamento già citato di Beit El, e ha effettivamente ottenuto una proroga del provvedimento. Nelle more di tale proroga, il 6 giugno un deputato nazionalista ha presentato alla Knesset un provvedimento per porre comunque in non essere le decisioni della Corte suprema, contro il quale tuttavia Netanyahu si è battuto., determinandone in modo netto la bocciatura. In tal modo, il premier sembra aver voluto ribadire il rispetto formale della legalità, ma non ha mancato di promettere che la colonia di Beit El nel suo complesso sarà comunque rafforzata dall'ingresso di 300 famiglie, con relativi nuovi alloggi. La destra più oltranzista considera comunque la questione di Beit El estremamente importante, perché moltissimi altri edifici degli insediamenti potrebbero essere stati costruiti su terre la cui proprietà rimane controversa o del tutto oscura, potendosi in tal modo prevedere una serie di sentenze a cascata della Corte suprema contro i coloni ebraici.

L’8 maggio ha segnato una svolta nel panorama politico israeliano, che già si preparava a elezioni legislative anticipate in settembre: infatti il partito centrista Kadima, ormai guidato da Shaul Mofaz dopo l’addio di Tzipi Livni, ma in preda a una grave crisi di identità, ha improvvisamente deciso di entrare nella coalizione di centro-destra guidata da Netanyahu, adducendo la motivazione di voler assicurare al paese una maggiore stabilità politica – alcuni osservatori hanno peraltro ventilato l’ipotesi che il compattamento della politica israeliana sia divenuto necessario a fronte dei grandi cambiamenti che interessano la regione mediorientale e nordafricana, per non parlare dell’eventualità di un attacco all’Iran, per il quale si starebbero predisponendo le condizioni politico-militari. La nuova compagine vanta comunque una mai prima registrata maggioranza di 94 seggi sui 120 della Knesset,che dovrebbe render possibile, nelle intenzioni dei protagonisti, il rilancio del processo di pace con i palestinesi, nonché modifiche istituzionali tali da migliorare la governabilità del sistema. La mossa di Mofaz ha provocato contraccolpi immediati nel seno di Kadima - partito che finora aveva fortemente polemizzato con il governo soprattutto sulla politica economica e sulla questione degli insediamenti dei coloni ebrei in territorio palestinese -, tali da far ipotizzare una prossima fine del partito fondato da Ariel Sharon ai tempi dello sgombero dei coloni ebrei da Gaza.

Un'altra mina vagante nei rapporti israelo-palestinesi è stata disinnescata alla metà di maggio, ancora una volta con la decisiva mediazione dell'Egitto: è stato  infatti raggiunto un accordo in base al quale circa 1600 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane per reati legati all'Intifada hanno sospeso lo sciopero della fame ad oltranza: l'eventuale decesso di qualcuno dei carcerati avrebbe indubbiamente costituito motivo di nuove gravissime tensioni nei Territori palestinesi. Conseguenza immediata dell'accordo sarà la possibilità per i familiari più stretti di riprendere le visite ai detenuti originari di Gaza, ai quali erano state precluse dopo il rapimento di Gilad Shalit, e il provvedimento era rimasto in vigore anche dopo la liberazione di questi nell'ottobre 2011. Inoltre, l'accordo israelo-palestinese prevede la revoca dell'isolamento nei confronti di una ventina di detenuti di particolare prestigio nelle carceri, la riduzione della pratica degli arresti amministrativi da parte di Israele, maggiore possibilità per i reclusi di accedere a studi accademici, l'aumento del numero di canali televisivi a disposizione dei carcerati. Israele ha però tenuto a precisare che se le attività dei detenuti porranno in questione la sua sicurezza l'accordo verrà semplicemente cancellato.

Il 16 maggio vi è stato un rimpasto del governo dell'Autorità nazionale palestinese, con il premier Fayyad che ha rinunciato al portafogli delle finanze, dando vita a una compagine non riconosciuta da Hamas. Nel nuovo gabinetto vi sono dieci ministri di prima nomina, e tra loro alcuni importanti esponenti di al-Fatah, che nei mesi precedenti avevano premuto per la restituzione parziale di cariche di governo a membri partitici. Il rimpasto del 16 maggio allontana di fatto la formazione del governo tecnico di unità nazionale che gli accordi di riconciliazione tra ANP e Hamas avevano previsto: tale governo avrebbe dovuto essere guidato in via transitoria da Abu Mazen, in vista della preparazione di elezioni congiunte a Gaza e in Cisgiordania. In effetti, però, proprio la classe dirigente di Hamas a Gaza aveva temporeggiato, senza dar seguito a questa parte degli accordi di riconciliazione.

Nell’impasse negoziale con Israele, determinata soprattutto per Abu Mazen dalla prosecuzione della politica degli insediamenti ebraici, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese ha preannunciato l’8 giugno di voler richiedere all’Assemblea Generale dell’ONU il riconoscimento come Stato osservatore non membro – alla stregua di quanto attualmente accordato alla sola Città del Vaticano. In tal modo l’ANP prende atto dell’insuperabilità del veto USA in Consiglio di Sicurezza, quand’anche la richiesta palestinese di ammissione a pieno titolo, presentata il 23 settembre 2011, avesse raggiunto il quorum di nove voti su quindici – e anche questo non si è verificato.

Una grande soddisfazione i palestinesi hanno però ottenuto il 29 giugno, quando il Comitato per il patrimonio dell’UNESCO, riunito per l’occasione a San Pietroburgo, ha approvato la proposta dell’ANP, inoltrata con procedura d’urgenza, di includere la Basilica della Natività e il Percorso del Pellegrinaggio di Betlemme tra i siti considerati Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Il punto di frizione con Israele – che ancora una volta ha accusato l’UNESCO di agire in base a schieramenti politici, e in modo preconcetto contro Israele – sta nella richiesta della procedura d’urgenza, che i palestinesi hanno motivato con lo stato di degrado in cui i siti di Betlemme verserebbero come conseguenza delle imposizioni dell’occupante israeliano, degrado negato invece recisamente da Tel Aviv.

Sul piano interno Israele si è poi trovata a fronteggiare il problema dell’immigrazione illegale da alcuni paesi africani, rispetto alla quale è emersa la linea dura del partito confessionale Shas e del suo capo Yishay – entrato in polemica con l’approccio in questo caso più moderato della destra laica di Lieberman. Vi è stata inoltre una ripresa del movimento di contestazione sociale del 2011, deluso dalla mancata realizzazione di alcune promesse di Netanyahu, e che ha dato vita anche ad alcuni episodi di violenza.

Dal 18 al 23 giugno vi è stata una ripresa della violenza tra Israele e Gaza, che si innesta ora nel nuovo clima egiziano determinato dall’elezione alla presidenza di Mohamed Morsi, esponente di spicco della Fratellanza musulmana: il 18 giugno vi è stato infatti un attacco terroristico dal Sinai contro i lavoratori israeliani impegnati nella costruzione della barriera di sicurezza sul confine con l’Egitto, nelle stesse ore in cui diversi ‘raid’ aerei israeliani colpivano la Striscia. Nei giorni successivi si è assistito a lanci di razzi e colpi di mortaio sul territorio israeliano, e parallelamente ad attacchi aerei su Gaza, con un bilancio al 23 giugno di una dozzina di morti a Gaza e cinque feriti israeliani. L’elemento di novità è stata la mancanza di un ruolo mediatore dell’Egitto, impegnato in un critico snodo istituzionale: semmai, dopo la conferma della vittoria di Morsi, crescono le inquietudini di Israele e le speranze di Hamas di ottenere appoggio e protezione dal nuovo corso della politica al Cairo. Il 25 giugno, comunque, le autorità israeliane hanno ricevuto la visita del presidente russo Putin, in un clima piuttosto amichevole.

Va da ultimo segnalato un altro caso di dissociazione della destra laica di Liebernan rispetto alle posizioni degli haredim (ultraortodossi), conseguenza del via libera dato dal Likud l’8 luglio al cambiamento della legge sulla leva (legge Tal), dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema. La nuova formulazione - che dovrà passare in Parlamento entro la fine di luglio, previo esame di una nuova Commissione che detterà le regole di una coscrizione universale (servizio militare o civile) – mira a recepire le istanze della maggioranza del Paese per un incremento del numero dei coscritti, alleggerendo in tal modo la pesantezza dei compiti di coloro che sono già in servizio – ai quali il premier Netanyahu non ha mancato di rivolgere la propria comprensione. Proprio per incrementare il numero dei coscritti la nuova normativa includerà anche circa 50.000 ebrei ultraortodossi attualmente esenti, nonché, nella forma di servizio civile, la popolazione araba di passaporto israeliano. Peraltro, l’applicazione della coscrizione estesa dovrebbe avvenire non d’imperio, ma attaverso un sistema di incentivi al servizio o penalizzazioni per chi se ne sottrarrà. Il leader della destra laica Lieberman ha rilevato l’insufficienza dei progetti in campo, richiedendo un provvedimento ancor più radicale, una vera leva generale: ciò contrasta del tutto con l’atteggiamento della destra ultraortodossa, che si è opposta finora all’inclusione degli haredim nelle forze armate israeliane.

Per quanto riguarda lo stato dei negoziati israelo-palestinesi, nella prospettiva della visita che a metà luglio il presidente dell’ANP Abu Mazen compirà nel nostro Paese, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha dichiarato ad autorità diplomatiche italiane che è necessario ormai ricostruire anche le coordinate basilari del dialogo, da troppo tempo interrotto. Ciò potrebbe avvenire tramite una serie di incontri diretti tra Netanyahu e Abu Mazen, ma solo dopo l’accettazione da parte di Tel Aviv della richiesta di rilascio di 123 prigionieri palestinesi avanzata dall’ANP – che, Erekat ha rimarcato, sarebbe ben poca cosa rispetto a quanto concesso da Israele in precedenti accordi con Hamas -, e il via libera all’importazione di armamenti per le forze di sicurezza palestinesi in Cisgiordania.

Nel caso la prospettiva di ripresa dei colloqui diretti – che Erekat ha sostenuto di preferire di gran lunga - non dovesse realizzarsi, l’ANP è pronta, in ordine alla questione del riconoscimento internazionale della Palestina, a concordare con i partner europei una bozza di risoluzione da presentare all’Assemblea generale dell’ONU. Solo in caso di fallimento anche di questa seconda ipotesi i palestinesi presenterebbero una propria risoluzione, incentrata principalmente sul riconoscimento della Palestina come Stato osservatore non membro – secondo quanto già anticipato l’8 giugno da Abu Mazen -, sulla condanna dell’espansione degli insediamenti ebraici e sulla salvaguardia dell’ipotesi “due Stati due popoli”.

Erekat ha altresì annunciato che l’ANP potrebbe intraprendere la via del riconoscimento dello Stato palestinese a livello bilaterale, sulla scia di quanto già avvenuto con l’elevamento del rango delle missioni diplomatiche palestinesi nei principali Paesi dell’unione europea.