L'assetto della disciplina dei servizi pubblici locali (SPL) ha subito diversi interventi di modifica nel corso della XVI legislatura, per effetto non solo di disposizioni normative, ma anche di referendum abrogativo e di pronuncia della Corte costituzionale. La disciplina del comparto va inserita in un quadro di compatibilità con gli orientamenti consolidati in sede di Unione europea.
La disciplina dei servizi pubblici locali (SPL), contenuta principalmente nell’articolo 113 D.Lgs. 267/2000, recante testo unico degli enti locali (TUEL), è stata profondamente modificata all’inizio della legislatura dall’articolo 23-bis del D.L. 112/2008, che, con il comma 11, ne ha disposto l’abrogazione.
Questo articolo ha previsto una disciplina di (parziale) liberalizzazione del settore, con incentivazione della gestione in concorrenza dei servizi, sostituendo la normativa precedente, anche settoriale. Infatti, le disposizioni in esso contenute si applicano a tutti i servizi pubblici locali prevalendo sulle relative discipline di settore con esse incompatibili.
Quanto ai contenuti questa riforma ha posto, come regola generale, il principio della gara, prevedendo due modalità di affidamento: una, ordinaria, mediante gara pubblica, l’altra, in deroga, senza gara attraverso un conferimento diretto; sono state disciplinate le situazioni in deroga e il regime transitorio degli affidamenti non conformi, per le fattispecie che "non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato" sono state quindi specificamente disciplinate. Inoltre, è stata prevista (comma 10) un'ampia delegificazione del settore.
L’abrogazione delle disposizioni del TUEL è stata disposta (comma 11) con una formula di abrogazione esplicita innominata: “é abrogato nelle parti incompatibili con le disposizioni del presente articolo”, rinviando (comma 10, lettera m)) al regolamento di delegificazione l’individuazione puntuale delle norme abrogate. Quindi non necessariamente solo (ma presumibilmente anche) quelle dell’art. 113. Certamente va ritenuto abrogato il comma 5 dell'art. 113 TUEL, relativo alle forme di gestione dei servizi, in quanto la stessa Corte costituzionale, con sent. 325/2010, l’ha ritenuto palesemente incompatibile con i commi 2, 3 e 4 dell'art. 23-bis.
L’impianto della disciplina stabilita dall'art. 23-bis è passato indenne dallo scrutinio di legittimità effettuato dalla citata sent. 325/2010 della Corte costituzionale, che ha ritenuto che l'ordinamento comunitario, in tema di affidamento della gestione dei servizi pubblici, costituisce solo un minimo inderogabile per i legislatori degli Stati membri e, pertanto, non osta a che la legislazione interna disciplini piú rigorosamente, nel senso di favorire l'assetto concorrenziale di un mercato, le modalità di tale affidamento.
Il D.L. 112/2008 ha previsto con l’art. 18 disposizioni di rilievo per la materia dei SPL, perché ha stabilito una disciplina per il reclutamento del personale delle società pubbliche, poi novellata dal D.L. 78/2009, che obbliga le società che gestiscono SPL a totale partecipazione pubblica:
La disciplina dell’art. 23-bis è stata poi novellata, in vari punti, dall’articolo 15 del D.L. 135/2009 e, successivamente completata, dal regolamento di delegificazione adottato con D.P.R. 168/2010 ai sensi del citato comma 10 dell’art. 23-bis. Le novelle hanno introdotto un’ulteriore forma di affidamento a società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che la selezione del socio avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, aventi ad oggetto sia la qualità di socio sia l'attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio, e che al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento. Inoltre, in caso di affido diretto le novelle hanno previsto obblighi di pubblicità e sottoposizione della relativa scelta al parere dell’Antitrust. Tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato devono avvenire nel rispetto dei princìpi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche.
L’intera disciplina prevista dall’art. 23-bis, come successivamente modificato, integrata dal regolamento di delegificazione, è stata travolta dall’esito delle consultazioni referendarie del 12 e 13 giugno 2011, aventi ad oggetto quattro quesiti, tra cui uno di abrogazione dell'art. 23-bis del D.L. 112/2008 sui servizi pubblici locali. La partecipazione al voto di quasi il 55% degli elettori ha consentito il raggiungimento del quorum necessario per la validità del referendum, e oltre il 95% dei votanti si è espresso in senso favorevole all'abrogazione.
Per colmare il vuoto normativo lasciato dall’abrogazione dell’articolo 23-bis, è quindi intervenuto sulla materia l’articolo 4 del D.L. 138/2011, convertito con modificazioni dalla L. 148 del 2011, prevedendo una nuova disciplina generale dei servizi pubblici locali che, tuttavia, a differenza della precedente - per tenere conto dell'esito di uno dei quesiti della consultazione popolare - escludeva espressamente il settore idrico.
Quanto al campo di applicazione delle nuove regole si prevedeva una clausola di generale applicazione ai servizi pubblici locali di rilevanza economica, con prevalenza sulle relative discipline di settore incompatibili. Accanto a ciò si stabiliva l’esclusione, oltre al servizio idrico integrato, dei seguenti servizi, disciplinati da normative di settore:
Le linee portanti del nuovo impianto normativo riprendevano quelle della disciplina varata nel 2008, successivamente modificata e integrata in sede di delegificazione.
L'impianto descritto è stato oggetto di ulteriori parziali modifiche: oltre all'articolo 9, co. 2, L.legge 183/2011, legge di stabilità 2012, l'art. 25, comma 1, del D.L. 1/2012, (c.d. D.L. Liberalizzazioni) è intervenuto sulla materia dei servizi pubblici locali introducendo nel D.L. 138/2011 l'art. 3-bis, che disciplina gli ambiti territoriali e i criteri di organizzazione dei servizi pubblici locali prevedendo:
Lo stesso art. 25 del D.L. 1/2012 ha anche novellato l’art. 4 del D.L. 138/2011 con l’obiettivo di limitare ulteriormente le possibilità di ricorrere alle gestioni dirette, incentivando le gestioni concorrenziali nei diversi segmenti del comparto.
Sull’assetto del comparto normativo dei servizi pubblici locali è poi intervenuto l’art. 53 del D.L. 83/2012 (c.d. D.L. Crescita del Paese) che ha ulteriormente novellato i citati articoli 3-bis e 4 del decreto legge 138/2011.
Il 19 luglio 2012, la Corte costituzionale , con sentenza 191/2012 ha dichiarato l’illegittimità delle disposizioni adottate, dopo il referendum del giugno 2011, con l’art. 4 del D.L. 138/2011, in quanto dirette a ripristinare norme abrogate dalla volontà popolare col suddetto referendum e così in contrasto con il divieto desumibile dall’art. 75 Cost..
Nonostante il titolo «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall’Unione europea», la disciplina contenuta nell’art. 4 ha, ad avviso della Corte, la stessa ratio di quella abrogata: vale a dire una ratio di drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house al di là di quanto prescritto in sede comunitaria; inoltre secondo la Corte, essa riproduce alla lettera, in buona parte, svariate disposizioni dell’art. 23-bis del D.L. 112/2008 (e del relativo regolamento attuativo D.P.R. n. 168 del 2010) abrogate col suddetto referendum 11.13 giugno 2011.
Con tale referendum, pertanto, secondo tale sentenza, si è realizzato “l’intento referendario di «escludere l’applicazione delle norme contenute nell’art. 23-bis che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico)» (sentenza n. 24 del 2011) e di consentire, conseguentemente, l’applicazione diretta della normativa comunitaria conferente”. La sentenza ribadisce il principio già affermato in precedenti pronunce per cui il legislatore “conserva il potere di intervenire nella materia oggetto di referendum senza limiti particolari che non siano quelli connessi al divieto di far rivivere la normativa abrogata.
La declaratoria di illegittimità ha riguardato non solo l’art. 4, ma anche le successive modificazioni dello stesso articolo disposte dalle seguenti fonti sopra illustrate:
Invece, non risulta incluso nel perimetro dell’illegittimità l’art. 3-bis, introdotto dall’art. 25 del D.L. 1/12.
Caducata tutta la normativa adottata con l’art. 4 del D.L. 138/2011 e le successive modifiche, il settore dei servizi pubblici locali risulta disciplinato come segue.
In primo luogo trova applicazione quanto stabilito in sede comunitaria, sia nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (di seguito TFUE) sia dalla giurisprudenza comunitaria.
Quanto alla prima fonte, l’articolo 14 TFUE (ex articolo 16 del TCE) sottolinea l’importanza dei servizi di interesse economico generale nell'ambito dei valori comuni dell'Unione del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale. Da ciò discende un obbligo per gli Stati membri e l’Unione di garantirne lo svolgimento, prevedendone principi e condizioni, in particolare economiche e finanziarie. Perciò la disciplina comunitaria in tema di aiuti dichiara compatibili con i trattati gli aiuti richiesti dalle necessità del coordinamento dei trasporti ovvero corrispondenti al rimborso di talune servitù inerenti alla nozione di pubblico servizio (art. 93 TFUE), in tema di diritti speciali o esclusivi sottopone le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale alle norme dei Trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, solo nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata ((art. 106 TFUE).
Si può notare che l’art. 14 TFUE fa riferimento a servizi di interesse economico generale e non a servizi pubblici locali, ma, come rilevato dalla Corte costituzionale, sent. 325/2010, " in ambito comunitario non viene mai utilizzata l’espressione «servizio pubblico locale di rilevanza economica», ma solo quella di «servizio di interesse economico generale» (SIEG), rinvenibile, in particolare, negli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Detti articoli non fissano le condizioni di uso di tale ultima espressione, ma, in base alle interpretazioni elaborate al riguardo dalla giurisprudenza comunitaria (ex multis, Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia) e dalla Commissione europea (in specie, nelle Comunicazioni in tema di servizi di interesse generale in Europa del 26 settembre 1996 e del 19 gennaio 2001; nonché nel Libro verde su tali servizi del 21 maggio 2003), emerge con chiarezza che la nozione comunitaria di SIEG, ove limitata all’àmbito locale, e quella interna di SPL di rilevanza economica hanno «contenuto omologo»” (conf. sent. 272/2004).
La natura meramente terminologica della differenza tra la nozione comunitaria e quella nazionale dei servizi in questione è evidenziata dalla richiamata sentenza 325/2010 rilevando che entrambe le nozioni “fanno riferimento infatti ad un servizio che: a) è reso mediante un’attività economica (in forma di impresa pubblica o privata), intesa in senso ampio, come «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato» (come si esprimono sia la citata sentenza della Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia, sia le sentenze della stessa Corte 10 gennaio 2006, C-222/04, Ministero dell’economia e delle finanze, e 16 marzo 2004, cause riunite C-264/01, C-306/01, C-354/01 e C-355/01, AOK Bundesverband, nonché il Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003, al paragrafo 2.3, punto 44); b) fornisce prestazioni considerate necessarie (dirette, cioè, a realizzare anche “fini sociali”) nei confronti di una indifferenziata generalità di cittadini, a prescindere dalle loro particolari condizioni (Corte di giustizia UE, 21 settembre 1999, C-67/96, Albany International BV)”.
In particolare nella citata pronuncia la Consulta afferma che “le due nozioni, inoltre, assolvono l’identica funzione di identificare i servizi la cui gestione deve avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante affidamento a terzi secondo procedure competitive ad evidenza pubblica”.
Per effetto delle disposizioni comunitarie ricordate, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, la gestione diretta del SPL da parte dell’ente pubblico è ammessa se lo Stato membro ritiene che l’applicazione delle regole di concorrenza sia un ostacolo, in diritto od in fatto, alla speciale missione del servizio pubblico restando riservato all’ordinamento comunitario il sindacato sull’eventuale “errore manifesto” alla base della decisione dello Stato.
In tal senso, e plurimis, può ricordarsi la sentenza della Corte di giustizia UE 11 gennaio 2005 (C-26/03, Stadt Halle, punti 48 e 49, e 10 settembre 2009, C-573/07, Sea s.r.l.), che ha riconosciuto che rientra nel potere organizzativo delle autorità pubbliche “autoprodurre” beni, servizi o lavori mediante il ricorso a soggetti che, ancorché giuridicamente distinti dall'ente conferente, siano legati a quest'ultimo da una “relazione organica” (c.d. affidamento in house).
Il meccanismo dell'affidamento diretto a soggetti in house, deve, però, essere strutturato in modo da evitare che esso possa risolversi in una ingiustificata compromissione dei principi che presiedono al funzionamento del mercato e, dunque, in una violazione delle prescrizioni contenute nel Trattato a tutela della concorrenza. In altri termini, il modello operativo in esame non deve costituire il mezzo per consentire alle autorità pubbliche di svolgere, mediante la costituzione di apposite società, attività di impresa in violazione delle regole concorrenziali, che richiedono che venga garantito il principio del pari trattamento tra imprese pubbliche e private (art. 345 TFUE).
La giurisprudenza della Corte di giustizia – proprio al fine di assicurare il rispetto di tali regole e sul presupposto che il sistema dell'affidamento in house costituisca un'eccezione ai principi generali del diritto comunitario – ha imposto l'osservanza di talune condizioni legittimanti l'attribuzione diretta della gestione di determinati servizi a soggetti “interni” alla compagine organizzativa dell'autorità pubblica.
Con la sentenza Teckal 18 novembre 1999 (C-107/98) la V Sezione della Corte di giustizia ha ritenuto applicabile la direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, ad amministrazioni aggiudicatrici, quali gli enti locali, che stipulino con enti formalmente distinti con autonomia decisionale, contratti a titolo oneroso aventi ad oggetto la fornitura di prodotti, “indipendentemente dal fatto che tale ultimo ente sia a sua volta un'amministrazione aggiudicatrice o meno”.
Con la sentenza 6 aprile 2006 (C-410/04), la I Sezione della Corte di giustizia ha ritenuto che “gli artt. 43 CE, 49 CE e 86 CE, nonché i principi di parità di trattamento, di non discriminazione sulla base della nazionalità e di trasparenza non ostano a una disciplina nazionale che consente ad un ente pubblico di affidare un servizio pubblico direttamente ad una società della quale esso detiene l'intero capitale, a condizione che l'ente pubblico eserciti su tale società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente che la detiene”.
In altri termini, quando un contratto sia stipulato tra un ente locale ed una persona giuridica distinta, l’applicazione delle direttive comunitarie sulla concorrenza può essere esclusa nel caso in cui l’ente locale eserciti sulla persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e la persona giuridica realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano. Segnatamente, ad avviso delle istituzioni comunitarie per controllo analogo s’intende un rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica; tale situazione si verifica quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario. In detta evenienza, pertanto, l’affidamento diretto della gestione del servizio è consentito senza ricorrere alla procedure di evidenza pubblica prescritte dalle disposizioni comunitarie innanzi citate. Al contrario, ove non ricorra un siffatto controllo gestionale ed economico dell’ente pubblico sul soggetto gestore ma l’affidamento riguardi un servizio in cambio della gestione dello stesso come corrispettivo (e dunque configuri, secondo l’interpretazione della commissione, una concessione di servizi) l’aggiudicazione del servizio deve in ogni caso avvenire nel rispetto dei principi comunitari di trasparenza e di parità di trattamento che impongono la necessità di seguire procedure di evidenza pubblica”.
Secondo la citata sentenza Stadt Halle dell'11 gennaio 2005, il controllo analogo non sussiste quando la società sia partecipata da privati, perchè «qualunque investimento di capitale privato in un'impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati», rifuggendo da «considerazioni ed esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico» che devono caratterizzare «il rapporto tra un'autorità pubblica (…) ed i suoi servizi».
Occorre notare che la Commissione UE, con il Libro verde del 30 aprile 2004, aveva rilevato che la normativa comunitaria consente l’affidamento diretto del servizio, senza gara, alle società miste, cioè con capitale in parte pubblico ed in parte privato (PPP, partenariato pubblico e privato) costituite a seguito di gara ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato; tuttavia la medesima normativa richiede, ad avviso della Commissione, che tale socio sia un socio «industriale» e non meramente «finanziario» senza prescrivere un limite, minimo o massimo, alla sua partecipazione al capitale.
La giurisprudenza costituzionale ha ripreso tale orientamento giurisprudenziale comunitario in alcune pronunce quali la sent. 439/2008 e la sent. 325/2010.
Quest’ultima sentenza, con riferimento all’art. 23-bis del D.L. 112/2008, ha evidenziato che: “a) la normativa comunitaria consente, ma non impone, agli Stati membri di prevedere, in via di eccezione e per alcuni casi determinati, la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale; b) lo Stato italiano, facendo uso della sfera di discrezionalità attribuitagli dall’ordinamento comunitario al riguardo, ha effettuato la sua scelta nel senso di vietare di regola la gestione diretta dei SPL ed ha, perciò, emanato una normativa che pone tale divieto”; inoltre, per le società in house, ha rilevato che “secondo la normativa comunitaria, le condizioni integranti tale tipo di gestione ed alle quali è subordinata la possibilità del suo affidamento diretto (capitale totalmente pubblico; controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario di ««contenuto analogo» a quello esercitato dall’aggiudicante stesso sui propri uffici; svolgimento della parte piú importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante) debbono essere interpretate restrittivamente, costituendo l’in house providing un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Tale eccezione viene giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle suddette condizioni esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa manus del primo. Nondimeno, la giurisprudenza comunitaria non pone ulteriori requisiti per procedere a tale tipo di affidamento diretto, ma si limita a chiarire via via la concreta portata delle suddette tre condizioni”.
La stessa sentenza ha rilevato che il legislatore nazionale, richiedendo espressamente, per l’affidamento diretto in house, non solo la sussistenza delle suddette tre condizioni poste dal diritto comunitario, ma anche ulteriori condizioni (di pubblicità e motivazione della scelta, con analisi di mercato, trasmissione di relazione dall’ente affidante all’ autorità di settore per il parere, sussistenza di situazioni peculiari di contesto, che non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato) che restringono la possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica, ha fatto una precisa scelta che “ reca una disciplina pro concorrenziale piú rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario”, non in contrasto “con la normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri”. È infatti innegabile, ad avviso della Corte, “l’esistenza di un “margine di apprezzamento” del legislatore nazionale rispetto a princípi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato. Ne deriva, in particolare, che al legislatore italiano non è vietato adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali – come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici – di applicazione piú ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario.”
In secondo, luogo trova applicazione quanto stabilito in via generale dall'art. 3-bis, del D.L. 138/2011 e successive modificazioni, nonché dall’art. 18 del D.L. 112/2008 in tema di reclutamento di personale nelle società controllate, sopra illustrati.
Si applica inoltre la disposizione prevista in relazione alle società a partecipazione pubblica dall’art. 8 del D.L. 98/2011, convertito dalla L. 148/2011 che obbliga tutti gli enti e gli organismi pubblici ad inserire sul proprio sito istituzionale, curandone altresì il periodico aggiornamento, l'elenco delle società di cui detengono, direttamente o indirettamente, quote di partecipazione anche minoritaria indicandone l'entità, nonché una rappresentazione grafica che evidenzia i collegamenti tra l'ente o l'organismo e le società ovvero tra le società controllate e indicano se, nell'ultimo triennio dalla pubblicazione, le singole società hanno raggiunto il pareggio di bilancio.
Inoltre, i settori c.d. esclusi, sopra ricordati, restano disciplinati dalle normative di settore, ferma restando la portata generale del richiamato art. 3-bis.
Non risulta invece riferita ai servizi pubblici locali la disciplina dell’articolo 4, commi 1-5, D.L. 95/2012 che prevede per le società controllate direttamente o indirettamente da pubbliche amministrazioni, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento dell'intero fatturato:
Infatti, il comma 3 dello stesso articolo ne esclude l’applicazione alle società che svolgono servizi di interesse generale, anche aventi rilevanza economica. Tale denominazione infatti è riferibile ai servizi pubblici locali come rilevato dalla Corte costituzionale con la sent. 325/2010 con riferimento all’analoga denominazione contenuta negli articoli 14 e 106 TFUE. Inoltre, sembra potersi ritenere che con la locuzione “società che prestano servizi nei confronti delle pubbliche amministrazioni” si intenda fare riferimento alle cd. “società strumentali” delle P.A., cioè a quelle società che producono beni e servizi strumentali alla pubblica amministrazione: infatti, la giurisprudenza del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. V, 12/6/2009 n. 3766) ha chiarito che possono definirsi strumentali tutti quei beni e servizi erogati da società a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica di cui resta titolare l'ente pubblico di riferimento (nel caso di specie, la pronuncia del Consiglio faceva riferimento alle amministrazioni regionali e locali), e con i quali l'ente provvede al perseguimento dei suoi fini istituzionali. Le società strumentali – afferma il Consiglio di Stato - sono, quindi, strutture costituite per svolgere attività strumentali rivolte essenzialmente alla pubblica amministrazione e non al pubblico, come invece quelle costituite per la gestione dei servizi pubblici locali che mirano a soddisfare direttamente ed in via immediata esigenze generali della collettività.
Sul comparto SPL sono intervenute, sul finire della legislatura, ancora due fonti normative, l’art. 34 del D.L. 179/2012, commi 20-25, convertito dalla L. 221/2012 con modificazioni e l’art. 3 del D.L. 174/2012, la prima recante disposizioni di natura generale, l’altra ispirata ad esigenze di controllo della spesa regionale e locale.
Questa disciplina basa l’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica su una relazione dell’ente affidante da rendere pubblica sul sito internet dell’ente stesso. Infatti, ai sensi del comma 20, costituisce contenuto necessario della relazione:
Costituisce invece contenuto eventuale della stessa relazione:
Obiettivi dell’obbligo di pubblicare la relazione sono:
Dalla disposizione risulta rimessa alla valutazione dell’ente affidante la scelta della modalità di affidamento, nel presupposto che la discrezionalità in merito sia esercitata nel rispetto dei “paletti” comunitari sopra illustrati. Il vincolo della pubblicazione della relazione è esteso dal comma 21 anche agli affidamenti già effettuati e tuttora in corso, con prescrizione di renderli conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea a carico degli enti affidanti. Uno specifico adeguamento per gli affidamenti in essere è costituito dalla previsione di un termine di scadenza, in mancanza del quale, alla stessa data del 31 dicembre 2013, si determina, di diritto, la cessazione dell’affidamento.
La fissazione della scadenza non è rimessa interamente alla discrezionalità dell’affidante, perché il comma 22 limita la discrezionalità dell’affidante in caso di affidamenti “diretti”, cioè senza gara, se:
In tale caso, infatti - fermo restando che se la scadenza è in atti l’affidamento diretto cessa a quella data - in mancanza di scadenza, l’affidamento diretto cessa, improrogabilmente e senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante, il 31 dicembre 2020.
Tale limitazione dovrebbe riguardare il termine massimo dell’affidamento, restando impregiudicata la discrezionalità dell’affidante nello stabilire un termine diverso e più ristretto.
Il comma 23, introduce una nuova disposizione dopo il comma 1 dell'articolo 3-bis del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, e successive modificazioni. In particolare la disposizione riserva esclusivamente agli enti di governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei, per tutti i servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, compresi quelli del settore dei rifiuti urbani, le funzioni seguenti:
Il comma 24 ha abrogato l’articolo 53, comma 1, lettera b) del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, che aveva introdotto modifiche nell’art. 4 del D.L. 138/2011 che la richiamata sentenza 199/2012 ha dichiarato illegittimo. Poiché, come sopra evidenziato, la declaratoria di illegittimità ha compreso le successive modifiche dell’art. 4, anche le disposizioni dell’art. 53 cui si riferisce il comma 25 devono ritenersi investite dalla pronuncia di illegittimità. Alla luce dell’art. 136 Cost., secondo il quale la norma dichiarata incostituzionale “cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” e dell’art. 30, terzo comma della L. 87/1953, “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, la Corte costituzionale ha evidenziato l'efficacia retroattiva delle declaratorie d'illegittimità costituzionale, con il limite “nei rapporti ormai esauriti, la cui definizione - nel rispetto del principio di uguaglianza e di ragionevolezza - spetta solo al legislatore di determinare” (sent. 3/1996). La sostanziale diversità delle situazioni, illegittimità e abrogazione, è stata già posta in luce dalla giurisprudenza della Corte in varie sentenze (nn. 1 del 1956, 43 del 1957, 4 del 1959, 11 e 12 del 1960, 1 del 1962, 77 del 1963 e 38 del 1965), che ha rilevato (sentenza n. 1 del 1956) che "i due istituti dell'abrogazione e della illegittimità costituzionale non sono identici fra loro, si muovono su piani diversi con effetti diversi e con competenze diverse". Principi questi, secondo la sent. n. 127 del 1966 “che hanno indotto questa Corte ad ammettere il controllo di costituzionalità anche rispetto a norma già abrogata, quando ne permanessero gli effetti nel vigore della nuova Costituzione. Da ciò e dal carattere sostanzialmente invalidante della dichiarazione di illegittimità deriva la conseguenza (pure accolta dalla dottrina quasi unanime) che la dichiarazione stessa produce conseguenze assimilabili a quelle dell'annullamento. Con incidenza quindi, in coerenza con gli effetti di tale istituto, anche sulle situazioni pregresse, verificatesi nello svolgimento del giudizio nel quale è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalità, salvo il limite invalicabile del giudicato, con le eccezioni espressamente prevedute dalla legge, e salvo altresì il limite derivante da situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili.” Alla luce della giurisprudenza costituzionale non risulta quale sia il presupposto dell’abrogazione prevista dal comma 25, che riguarda disposizione modificativa di altra già dichiarata incostituzionale.
Ai sensi del comma 25, le disposizioni illustrate (commi 20-22) non si applicano a i seguenti servizi:
Restano inoltre ferme le disposizioni di cui all’articolo 37 del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 in tema di disciplina delle gare per la distribuzione di gas naturale e nel settore idroelettrico. Questo articolo, con il comma 1, lettera a), interviene sulle norme che disciplinano le gare per la distribuzione gas, contenute nel D.Lgs. n. 164/2000, prevedendo che alle gare per ambito territoriale siano ammessi tutti i soggetti, con la sola esclusione di quelli che, a livello di gruppo societario, gestiscono al momento della gara servizi pubblici locali in virtù di affidamento diretto o di una procedura non ad evidenza pubblica; si specifica altresì che tale divieto non vale per le società quotate in mercati regolamentati e per le società da queste direttamente o indirettamente controllate, nonché al socio selezionato ed alle società a partecipazione mista, pubblica e privata. Con il comma 2 si chiarisce che la generale disciplina degli ambiti, individuati a livello provinciale dall’art. 25 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con legge 24 marzo 2012, n. 27, non si applica agli ambiti già determinati per le gare per la distribuzione del gas. Il comma 3 prescrive che per le gare per la distribuzione del gas resta fermo l’obbligo di assumere una quota parte del personale del distributore uscente, in deroga alla nuova normativa recata dall’art. 25 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con legge 24 marzo 2012, n. 27. Al comma 4 si modificano la tempistica ed i criteri di aggiudicazione delle gare per le concessioni idroelettriche: si contempla la possibilità che la durata delle concessioni per grandi derivazioni idroelettriche salga dai 20 anni previsti dal testo originario a 30 anni, a seconda dell’entità degli investimenti ritenuti necessari. I commi 5 e 6 disciplinano il trasferimento del ramo d’azienda dal concessionario uscente al nuovo aggiudicatario per garantire la continuità gestionale della concessione: i rapporti giuridici contemplati sono decadenza, rinuncia o termine dell'utenza idroelettrica; il rientro degli investimenti effettuati, inoltre, avviene con riferimento al valore di mercato, per i beni materiali diversi da quelli pubblici identificati dall'articolo 25, comma 1, del Testo Unico e non ammortizzati alla scadenza della concessione. In relazione a tale nuova disciplina il comma 8 abroga i commi 489 e 490 dell’articolo 1 della legge 266/2005 (finanziaria 2006). Il comma 7 prevede un decreto ministeriale, d’intesa con la Conferenza permanente, per stabilire i criteri generali per la determinazione e l’aggiornamento da parte delle regioni di valori massimi dei canoni di concessione ad uso idroelettrico, secondo criteri di economicità e ragionevolezza: con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare sono fissate le modalità mediante le quali le regioni e le province autonome possono destinare una percentuale di valore non inferiore al 20 per cento del canone di concessione pattuito alla riduzione dei costi dell'energia elettrica a beneficio dei clienti finali.
La disciplina contenuta nei commi 20-25 dell’art. 34 è completata dal comma 3-bis dell’articolo 33, che estende alle società operanti nella gestione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica la normativa concernente l’emissione di obbligazioni e di titoli di debito da parte delle società di progetto di cui all’articolo 157 del decreto legislativo n. 163 del 2006, c.d. Codice degli appalti.
L’art. 3 del D.L. 174/2012 ha modificato il TUEL in più punti, tra cui i seguenti che rilevano in tema di SPL:
L’attuazione di queste disposizioni è oggetto di altre due novelle, contenute negli articoli 148 e 148-bis Tuel che prevedono, rispettivamente, il controllo da parte della Corte dei conti e la verifica da parte del Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato. Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti accertano altresì che i rendiconti degli enti locali tengano conto anche delle partecipazioni in società controllate e alle quali è affidata la gestione di servizi pubblici per la collettività locale e di servizi strumentali all'ente.
La disposizione è ispirata all’obiettivo di controllo della spesa pubblica che costituisce la base anche di un’altra disposizione contenuta nello stesso D.L. che riguarda le società controllate dalle regioni che gestiscono servizi pubblici locali o servizi strumentali.
Si tratta dell’art. 1, comma 4, che prevede che, in sede di controllo dei rendiconti delle regioni, le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti verificano che gli stessi rendiconti tengano conto anche delle partecipazioni in società controllate e alle quali è affidata la gestione di servizi pubblici per la collettività regionale e di servizi strumentali alla regione.
Tale previsione, tendente a consolidare nei documenti di bilancio regionali gli effetti finanziari derivanti da partecipazioni societarie e dal settore sanitario, appare rispondente ad esigenze specifiche evidenziate dalla stessa Corte dei conti in propri documenti, come delibera 241/2011 e la relazione allegata della Sezione regionale di controllo delle Marche, relative alla necessità di “ricognizione degli Enti ed organismi dipendenti e, in particolare, delle partecipazioni societarie, di cui andrebbe riconsiderata l’effettiva economicità ed utilità in coerenza con i fini istituzionali e le esigenze del territorio”, in particolare consentendo anche “uno stringente monitoraggio, anche in corso di esercizio, soprattutto per ciò che riguarda le società a partecipazione regionale totalitaria, in ordine all’evoluzione dell’indebitamento e della spesa per il personale”.
In tema di riduzione di spese per personale la Corte dei conti, sezioni riunite, con pareri 3 febbraio 2012, n. 3 e 4, ha ritenuto che se gli enti locali rinunciano a gestire SPL con società partecipate, non possono immettere nei loro ruoli il personale assunto dalle società.
L’affidamento dei servizi in house è oggetto di specifiche previsioni nell’ambito di un pacchetto di misure presentato dalla Commissione europea il 20 dicembre 2011 che comprende: 1) una proposta di direttiva sugli appalti nei cosiddetti “settori speciali”, vale a dire acqua, energia, trasporti e servizi postali COM(2011)895; 2) una proposta di direttiva sugli appalti pubblici COM(2011)896; 3) una proposta di direttiva sull'aggiudicazione dei contratti di concessione COM(2011)897.
Dal campo di applicazione delle proposte sono espressamente esclusi, tra gli altri, gli appalti e le concessioni aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice ad un’altra persona giuridica qualora:
Si stabilisce altresì che un accordo concluso tra due o più amministrazioni aggiudicatrici non dovrà essere considerato un appalto pubblico o una concessione nel caso in cui:
Il Consiglio competitività del 10 dicembre 2012 ha approvato un orientamento generale che prospetta una serie di modifiche ai testi iniziali della Commissione europea.
Per quanto riguarda gli appalti aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice ad un’altra persona giuridica, si propone che almeno l’80% (anziché il 90% come previsto dalla proposta iniziale) delle attività di tale organismo siano svolte nell’esecuzione di contratti che gli sono stati aggiudicati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altri organismi giuridici controllati dall’amministrazione aggiudicatrice in questione.
Sia per gli appalti che per le concessioni, al fine di calcolare la percentuale delle attività, si dovrà prendere in considerazione la media del fatturato complessivo dell’entità controllata in relazione ai servizi, alle forniture ed ai lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione in questione. Qualora a causa della data in cui l’organismo è stato creato o ha avviato la propria attività o a causa della riorganizzazione della sua attività, il fatturato riferito ai tre anni precedenti non sia disponibile o non sia più rilevante, sarà sufficiente dimostrare che il fatturato è credibile in particolare mediante progetti finanziari.
Inoltre, in relazione al controllo che un'amministrazione aggiudicatrice dovrà esercitare su una persona giuridica, analogamente a quello esercitato sui propri servizi, qualora essa eserciti un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata, nell’orientamento generale si propone di precisare che tale controllo potrà essere effettuato anche da un’altra entità a sua volta soggetta allo stesso tipo di controllo da parte dell’autorità aggiudicatrice.
Infine, si propone che un accordo concluso tra due o più amministrazioni aggiudicatrici non sia considerato un appalto pubblico o una concessione qualora, tra l’altro, le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti non svolgano più del 20% delle attività interessate dalla cooperazione sul mercato (anziché più del 10% - in termini di fatturato - delle attività pertinenti all'accordo, come previsto dalle proposte iniziali).
Il pacchetto è sottoposto all’esame del Parlamento europeo e del Consiglio secondo la procedura legislativa ordinaria. Il PE dovrebbe esaminare le due proposte sugli appalti in prima lettura in occasione della plenaria del 16 aprile prossimo, mentre per quella sulle concessioni l’esame è previsto per la plenaria del 22 maggio.