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L'emergenza umanitaria in Sud Sudan e Darfur

La divisione dei due Sudan non ha portato, come molti speravano, ad una soluzione stabile e duratura della guerra civile che, quasi ininterrottamente dal 1956, insanguinava la regione (almeno due milioni di morti dallo scoppio delle violenze).   Ma la scarsa chiarezza degli accordi di pace (soprattutto riguardo alla definizione delle zone di frontiera) ha causato una recrudescenza di questo conflitto mai veramente sopito.   

 Il fatto che le zone di confine contese fossero ricche di petrolio ha costituito un terribile innesco per lo scoppio dei nuovi scontri tra le fazioni del nord e quelle del sud. Con la creazione di due Stati indipendenti, la gran parte delle risorse petrolifere è andata sotto il controllo del sud. Ma, allo stesso tempo, le raffinerie e l’unico porto dal quale il petrolio può essere esportato sono nel territorio del nord.

Già nel gennaio 2012 erano esplose le prime tensioni, quando a Juba (capitale del Sud Sudan) avevano deciso di bloccare le estrazioni petrolifere dai pozzi situati entro i propri confini, come ritorsione verso Khartoum (capitale del Sudan), accusata di essersi indebitamente appropriata di ingenti quantità di petrolio in transito sul suo territorio (secondo alcune stime, l’equivalente di 1 miliardo di dollari) e di aver imposto un prezzo spropositato per il passaggio del greggio verso i porti di esportazione (32 dollari al barile quando il prezzo di mercato era intorno ai 7).

Nell’impossibilità di risolvere la questione attraverso dei colloqui, il conflitto armato si è nuovamente acuito. Le regioni di confine, in particolare il Kordofan Meridionale (formalmente sotto la giurisdizione sudanese, ma con ancora una folta presenza di guerriglieri del sud), il Nilo Azzurro, Abyei e lo Stato di Unity, sono stati oggetto di pesanti bombardamenti da parte dell’aviazione militare del Sudan (che possiede in dotazione gli aerei Antonov, di fabbricazione sovietica) deciso a non perdere il controllo dei pozzi che si trovano in quelle zone e a piegare la resistenza dei guerriglieri dell’SPLA (Sudan People’s Liberation Army).

Omar Al Bashir, Presidente del Sudan, ha deciso di usare la mano dura nella regione, favorendo l’ascesa alla carica di governatore del Kordofan Meridionale di Ahmed Harun, già incriminato dal Tribunale penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Darfur, e facendo leva sulle rivalità interetniche (dato che con la separazione dei due Sudan era venuto meno il pretesto dell’odio interreligioso).   

A pagare il prezzo più alto è stata, ed è tuttora, la popolazione civile. Gli abitanti dei villaggi delle zone colpite hanno cercato rifugio tra i Monti Nuba (catena montuosa del Kordofan Meridionale), le cui caverne offrono riparo dalle micidiali bombe a grappolo (il cui uso è stato vietato dalla Convenzione di Oslo del dicembre 2008, entrata in vigore nell’agosto 2010). Ma chi ha potuto, ha deciso di allontanarsi da quelle zone di guerra e migrare verso sud, attraversare la frontiera e cercare riparo in Sud Sudan.

La bomba umanitaria si è riversata su uno Stato giovanissimo ed ancora molto fragile. Nei campi profughi allestiti dalle organizzazioni internazionali (in particolare dall’agenzia ONU per i rifugiati – UNHCR) nella parte settentrionale del Sud Sudan, a ridosso del confine, l’afflusso quotidiano di sfollati è aumentato in modo considerevole nel corso del 2012.

Secondo dati delle Nazioni Unite, ad oggi sarebbero circa 300mila gli sfollati provenienti dalla regione del Sud Kordofan, 200mila dal Nilo Azzurro e 100mila da Abyei. Senza contare gli 1,7 milioni di rifugiati interni del Darfur, regione occidentale del Sudan martoriata da anni di violenze interetniche, che si vanno a sommare agli altri 2,5 milioni di profughi che, secondo le stime recenti di USAid si sono mossi in questi anni all’interno del territorio della Repubblica sudanese.

Secondo i dati forniti dall’OCHA poi, i sudanesi che hanno trovato riparo in paesi limitrofi sarebbero intorno alle 370mila unità, divisi tra Ciad, Etiopia, Egitto, Kenya e Repubblica Centrafricana.  

Nel campo di Jamam, nella regione dell’Alto Nilo (che confina con quella del Nilo Azzurro), i volontari raccontano che nei periodi più critici devono fronteggiare anche 1000 arrivi al giorno, con i medici impegnati in circa 900 visite mediche giornaliere per scongiurare i rischi di epidemie, molto alti in situazioni di igiene precaria come quelle che si riscontrano in questi accampamenti. Secondo uno studio di Medici senza frontiere, in questo campo di accoglienza il tasso di mortalità è quasi il doppio della “soglia di emergenza”: muoiono circa nove bambini ogni giorno (mentre per gli adulti il numero giornaliero è di 1,8). La gran parte dei decessi è causata da forme di diarrea acuta, malattia inevitabile quando le scorte d’acqua diventano contaminate.  

Il campo di Jamam ospitava circa 35mila rifugiati; ma lo scorso maggio, in concomitanza con l’inizio della stagione delle piogge, ha dovuto accogliere altre 30mila persone, con la conseguenza che la quantità di risorse a disposizione (acqua, cibo, ripari) si è praticamente dimezzata. L’approvvigionamento dei campi di accoglienza è difficoltoso a causa del blocco delle vie commerciali che dal Sudan corrono verso sud, imposto dal governo di Khartoum, che ha limitato l’accesso anche agli operatori umanitari. Per questo le organizzazioni internazionali che operano in quell’area hanno dovuto utilizzare ponti aerei per far arrivare beni di prima necessità alle popolazioni stremate.

Nella zona dell’Alto Nilo, dove sono sorti molti campi profughi (come quello di Jamam), sarebbe poi in corso, secondo un rapporto dell’UNHCR, un’epidemia di epatite E, causata dal sovraffollamento di rifugiati e dalle contestuali condizioni igieniche precarie. Dallo scorso luglio sono stati registrati più di 6mila casi di contagio, tra cui 111 morti. Il campo più colpito è stato quello di Yusuf Batil, dove si sono ammalate quasi 4mila persone (il 70% del totale dei casi) su una popolazione del campo di circa 38mila individui. 77 persone decedute. Non essendo ancora disponibile un vaccino contro l’epatite E, gli operatori sanitari invitano le persone ad adottare almeno le pratiche sanitarie più basilari. Quali misure di emergenza per arginare la diffusione di questa malattia, sono in fase di costruzione, nei principali campi, servizi igienici aggiuntivi (circa 700 latrine nel campo di Yusuf Batil), è stata aumentata la quantità di sapone distribuito, è in corso la sostituzione di circa 22mila taniche d’acqua da dieci litri (se riempiti con acqua contaminata, questi contenitori diventano fonte di infezione) e si stanno scavando nuovi pozzi per l’approvvigionamento dell’acqua.

Questi interventi sanitari e sociali delle organizzazioni internazionali rivestono un’importanza fondamentale per tenere sotto controllo una situazione di precario equilibrio, data dal sovraffollamento di rifugiati nella zona dell’Alto Nilo, situata proprio lungo il confine investito dal conflitto tra i due Sudan. Solo in questa regione sono presenti circa 113mila rifugiati.

Più ad ovest, lungo la linea del conflitto, c’è lo Stato di Unity, dove è allestito il campo di accoglienza con maggior concentrazione di rifugiati di tutto il Sud Sudan, ben 65mila anime. E l’agenzia ONU per i rifugiati sta allestendo, in questo periodo, un nuovo campo in questa stessa zona, nella località di Ajuong, un’area boscosa con abbondante spazio e buona disponibilità di acqua. Al suo completamento, sarà in grado di ospitare 20mila persone. Ma il progetto prevede la costruzione di campi per altri 100mila rifugiati. Secondo le previsioni dell’agenzia ONU, infatti, a causa del protrarsi degli scontri (soprattutto nel Kordofan Meridionale) e del favore della stagione asciutta (che consente spostamenti più agevoli) il Sud Sudan potrebbe trovarsi a dover accogliere almeno altri 60mila nuovi disperati nei prossimi mesi.

Un significativo flusso di profughi in Sud Sudan è causato anche da scontri interni allo stesso paese, molto spesso di matrice etnica. Secondo quanto riportato da alcuni quotidiani, circa un anno fa (quindi sei mesi dopo la nascita del 54° Stato africano) sarebbero scoppiate violenze interetniche nella regione di Jongli (a sud dell’Alto Nilo), che in pochi giorni avrebbero causato più di 3mila vittime (gran parte donne e bambini). All’origine di questa mattanza, ci sarebbe una lunga rivalità fra tribù della stessa zona, i Lou Nuer e i Murle, che da tempo si contendono l’accesso all’acqua e l’utilizzo dei pascoli e dei capi di bestiame in quelle zone. Da una parte e dall’altra, con cadenza regolare, partono squadroni della morte, che fanno scempio delle popolazioni rivali senza alcune pietà, uccidendo centinaia di persone, rapendo bambini e razziando bestiame. Secondo fonti locali, questi conflitti tra tribù avrebbe provocato, solo dall’indipendenza del Sud Sudan, un esercito di 63mila sfollati.

A tutto ciò deve poi aggiungersi il mezzo milione di cittadini sud sudanesi che sono rimasti in Sudan dopo la separazione dei due stati. Il fatto che i governi facciano molta fatica ad accordarsi su diritti e modalità di trattamento, potrebbe indurre una buona parte di loro a mettersi in marcia per oltrepassare il confine e giungere al proprio Stato di appartenenza, andando così ad alimentare un già massiccio flusso di profughi in cerca di pace e sicurezza.

Gli ingenti flussi migratori in questa martoriata regione africana non sono da imputare solamente agli scontri tra fazioni armate, essendo anche spesso causati da eventi naturali e condizioni ambientali avverse, cui il Sudan è particolarmente esposto. Durante la stagione delle piogge, infatti, le ripetute alluvioni che si abbattono su insediamenti e villaggi già particolarmente in difficoltà, costringono le popolazioni a spostarsi per trovare condizioni di vita più agevoli. Le piogge che sono cadute tra giugno e ottobre 2012 sul Sudan e sul Sud Sudan hanno colpito circa 500mila persone, causando migliaia di sfollati.  

Per quanto riguarda il conflitto del Darfur, la situazione di violenza e di violazione dei diritti umani continua a persistere in quelle aree. Anche se, secondo il rapporto 2011-2012 di Italians for Darfur (un’associazione italiana per i diritti umani) per la prima volta da nove anni di conflitto, nei primi mesi del 2011 è stata registrata una tendenza positiva: il numero degli sfollati che ha deciso di far ritorno verso i villaggi di origine ha superato quello dei nuovi profughi. In sei mesi, circa un milione di persone ha fatto ritorno alle proprie terre, soprattutto dai campi del Sud Darfur, del Ciad e del Darfur occidentale; contestualmente sono diminuite anche le organizzazioni internazionali operanti nell’area: si è passati da 80 a poco più di 70 gruppi.

Nonostante la positiva inversione di tendenza, la situazione dell’area rimane molto critica, con circa 1,7 milioni di persone che, ad oggi, vivono nei campi profughi. Il rapporto 2013 di Italians for Darfur (pubblicato nel mese di febbraio) parla infatti di una zona dove si continua a morire prematuramente: molte persone non superano il 35° anno di vita e molti bambini muoiono prima di aver compiuto il 6° anno. L’inversione di tendenza di cui sopra (rientrati in rapporto ai nuovi rifugiati), sembra poi essersi definitivamente arrestata la scorsa estate. Gli ultimi dati presentati nella relazione, parlano di 40mila nuovi sfollati a causa degli scontri nelle aree di Golo e Guldo.