Il 14 novembre 2012 è stato assassinato nella Striscia di Gaza il leader di Hamas, Ahmed Said Khalil al-Jabari, raggiunto da un missile israeliano mentre era in automobile insieme a suo figlio e a due altri dirigenti del movimento islamico. L’uccisione di al-Jabari è avvenuta dopo un crescendo di lanci di razzi dalla Striscia di Gaza sul territorio israeliano.
Al-Jabari era il capo delle Brigate al-Qassam, il braccio militare di Hamas, responsabile, tra l’altro, dell'incursione sul territorio israeliano nel corso della quale fu rapito il soldato Gilad Shalit. Secondo lo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, Jabari era l’ideatore di tutti gli attacchi terroristici provenienti da Gaza che negli ultimi dieci anni hanno colpito Israele.
Il governo israeliano ha dichiarato che questo e altri attacchi contro obiettivi militari e politici nella Striscia hanno uno scopo dissuasivo verso il lancio di missili su Israele.
L’operazione israeliana, denominata “Colonna di fumo” o “Pilastro di difesa” è iniziata il 14 novembre con massicci bombardamenti aerei ed è terminata il 22 novembre. Il bilancio è di oltre 150 morti e migliaia di feriti tra i palestinesi e di cinque vittime israeliane. La tregua, senza precondizioni, è stata negoziata dal presidente Obama e dal presidente egiziano Morsi.
La tregua, salutata da Hamas con toni trionfalistici e la proclamazione di una giornata di festa nazionale prevede, oltre alla sospensione dell’offensiva militare da entrambe le parti, l’apertura dei valichi di frontiera, la facilitazione dei movimenti di merci e di persone e la rimozione delle restrizioni dei movimenti dei residenti nella Striscia di Gaza.Ai festeggiamenti, tuttavia, le diverse fazioni armate si sono presentate separatamente, comportamento che non ha mancato di sollevare dubbi circa la capacità di Hamas di tenere sotto controllo i gruppi più estremisti, fra i quali quello denominato Jihad Islamica, e di conseguenza, sulla solidità del cessate-il-fuoco.
Soddisfatti della tregua i rappresentanti del governo israeliano, che nelle dichiarazioni pubbliche hanno affermato di aver ottenuto l’obiettivo prefissato e che avevano ricevuto il sostegno di tutti gli schieramenti politici all’intervento militare. L’unica voce di dissenso è stata quella dei partiti arabi, primo fra tutti Hadash. I vertici militari, in un comunicato, hanno precisato che sono stati colpiti 1.500 siti sul territorio di Gaza, inclusi 19 obiettivi militari identificati come “centri di comando superiore, centri operativi e quartier generali di Hamas di grado superiore”.
Ampio il consenso all’operazione militare anche da parte dell’opinione pubblica che, mai come in questo momento, si sente minacciata dal lancio di razzi sul territorio israeliano. E’ indubbio infatti che, rispetto al passato, Hamas costituisca un pericolo maggiore avendo potenziato il proprio arsenale militare, grazie agli aiuti dell’Iran e del Qatar e grazie anche alla presenza di centinaia di tunnel sotterranei che tuttora collegano la Striscia di Gaza con il territorio egiziano del Sinai. Secondo il think tank Stratfor, Hamas ha raddoppiato la sua potenza di fuoco grazie all’acquisto di razzi Fajr-5 che hanno una gittata di circa 77 chilometri e che possono quindi costituire una seria minaccia anche per le due principali città israeliane, Tel Aviv e Gerusalemme.
Probabilmente proprio per questa ragione il governo di Tel Aviv ha voluto porre l’accento sul successo dell’impiego del proprio sistema di difesa Iron Dome. I dati forniti dal ministero della difesa israeliano dicono che il sistema antimissile, durante l’operazione degli scorsi giorni, è stato attivato 573 volte ed ha neutralizzato 421 missili su un totale di 1.506 sparati da Gaza. Come si vede, Iron Dome è stato utilizzato solo contro un terzo circa dei razzi palestinesi, a dimostrazione del fatto che il sistema computerizzato è in grado di calcolare con una certa rapidità la loro traiettoria e di attivare lo scudo solo se necessario. Israele sostiene inoltre che 875 missili sono stati lanciati su aree disabitate, alcune delle quali appartenenti al territorio cisgiordano.
Le affermazioni secondo le quali l’arsenale palestinese (circa 10.000 missili) sarebbe stato gravemente danneggiato durante gli otto giorni di “Colonna di fumo” sono state smentite da Hamas che dichiara di essere ancora in possesso di grandi riserve di armi, fra le quali un numero imprecisato di missili a lunga gittata.
Fanno riflettere alcuni dati riportati dal sito della BBC che smentiscono le affermazioni di un alto ufficiale israeliano, il Brigadiere Generale Michael Herzog secondo il quale il numero di lanci di razzi da Gaza era notevolmente diminuito durante i giorni del conflitto. Al contrario, la BBC afferma che nuove informazioni ora disponibili dimostrano che il numero dei lanci – tranne il primo giorno che era sceso a 75 – è stato piuttosto alto nei giorni seguenti (oscillando da 316 a 143). Anche l’ultimo giorno, in prossimità della firma del cessate-il-fuoco, i lanci sono stati in numero sostenuto: 130.
La tregua tra Israele e Gaza è molto fragile, ed entrambe le parti minacciano la parte avversa di una ripresa ancora più feroce delle ostilità nel caso di una sua violazione. Anche allo scopo di consolidare il cessate-il-fuoco, il 26 novembre sono ripresi al Cairo i colloqui indiretti tra Israele e Hamas che però vedono sul tavolo anche altre questioni: la richiesta di libera circolazione di persone e beni nella Striscia e la soppressione della "fascia di sicurezza" al confine con Israeleche occupa quasi il 17 per cento del territorio della Striscia di Gaza.
Sulla tregua aleggia anche lo spettro del legame tra Hamas, il gruppo Jihad Islamica e l’Iran, pubblicamente ringraziato per il rifornimento di armi: una delle condizioni da parte dei gruppi armati della Striscia per il mantenimento della tregua consiste proprio nell’abbandono da parte di Israele di qualsiasi tentazione di attaccare Teheran e i suoi siti nucleari.
Nell’analizzare i possibili scenari futuri, gli osservatori internazionali avvertono della rilevanza dei cambiamenti recentemente avvenuti nella regione mediorientale e nordafricana, che disegnano uno sfondo ben differente da quello presente ai tempi della prima guerra di Gaza e dell’operazione “Piombo Fuso” (dicembre 2008-gennaio 2009).
L’Egitto di Mohamed Morsi, pur prestando attenzione a non alterare i rapporti di buon vicinato con Israele, ha sostenuto Hamas, organizzazione affiliata ai Fratelli Musulmani, di cui Morsi è stato uno dei leader. L’Egitto, tramite il suo presidente e il suo apparato militare, ha poi svolto una funzione decisiva per la cessazione delle ostilità, conquistandosi un ruolo di mediatore internazionale riconosciuto pubblicamente dal segretario di stato americano Clinton.
Esponenti politici di paesi della Lega araba e di altri paesi mediterranei si sono recati nella Striscia di Gaza nei giorni dei combattimenti: il ministro degli esteri tunisino, Rafiq Abdessalam, quello turco, Ahmet Davutoglu, il capo della diplomazia libanese, Adnan Mansur, tutti per portare la solidarietà dei loro governi a sostegno alla popolazione palestinese.
L’Emiro del Qatar, al-Thani, che aveva già visitato la Striscia lo scorso ottobre elargendo una sovvenzione di 400 milioni di dollari, nei giorni del conflitto ha annunciato una donazione di 10 milioni di dollari all’Egitto per far fronte alle cure mediche che i sanitari egiziani presteranno ai feriti palestinesi durante i bombardamenti.
Grazie al conflitto degli scorsi giorni, la questione palestinese, messa in ombra dai rivolgimenti delle Primavere arabe, è ritornata in primo piano.
Anche i nuovi colloqui con Israele - se non per la negoziazione di una pace, per il raggiungimento di una tregua di lunga durata – sembrano essere stati rimessi in moto dai combattimenti, così come sembra potersi registrare, fra gli effetti della crisi, anche un riavvicinamento tra Fatah e Hamas, che ha ammorbidito la propria posizione sulla risoluzione dell’ANP all’Onu.
Sono Egitto, Qatar e Turchia i paesi che più di altri hanno svolto un ruolo chiave nel porre termine al conflitto di Gaza, come fa notare il New York Times in un’analisi apparsa sul suo sito web il 27 novembre. I rivolgimenti nei regimi che hanno fatto seguito alle Primavere Arabe hanno fatto sì che, al momento, questi tre paesi costituiscano il perno di un nuovo "asse sunnita", che si contrappone a quello sciita ritenuto per anni dall’Occidente il maggiore pericolo sul fronte del mondo islamico. Egitto, Qatar e Turchia, come hanno dimostrato anche in occasione del conflitto di Gaza, hanno interesse alla stabilità dell’area, che ha come presupposto, secondo dichiarazioni comuni, la fine dell’occupazione israeliana. Poiché tuttavia sembra tramontata l’ipotesi della soluzione dei due stati, della quale i nuovi governi islamici non fanno mai menzione, la strada attualmente percorribile sembra essere quella della tregua di lunga durata, della quale l’Egitto si è fatto promotore.
Secondo molti osservatori, la solidarietà dei regimi sunniti nei confronti di Gaza è mossa anche dalla volontà di ridurre l’influenza esercitata dall’Iran su una parte del mondo arabo, di cui Hamas e i jihadisti hanno sempre fatto parte.
Nonostante l’Iran abbia fornito ad Hamas i missili che gli hanno consentito di attaccare le città israeliane, un distanziamento di Hamas da Teheran era già cominciato lo scorso inverno, quando il gruppo decise di sostenere apertamente la ribellione contro il presidente siriano Bashar al-Assad. Sulla questione, all’interno di Hamas si distinguono due posizioni: i seguaci del primo ministro Haniyeh che stanno dalla parte dell’Iran, e coloro che fanno capo a Meshaal, che rivolgono maggiori attenzioni al mondo sunnita (del quale peraltro Hamas fa parte). Hamas non è però in grado di fare a meno delle armi iraniane e, come ha spiegato Khaled Meshalin una recente intervista alla CNN, sebbene le relazioni tra i due non siano strette come nel passato, a causa dell’impatto della crisi siriana, non si deve assolutamente pensare ad una rottura.
La realtà delle nuove alleanze, non ancora completamente delineata, potrebbe presentare, come avverte il NYT, un Iran più debole, ma un Medioriente molto più religioso e molto meno grato agli Stati Uniti.
La ripresa del tavolo negoziale tra Hamas e Israele mette in luce con tutta evidenza, se non la scomparsa, quantomeno l’irrilevanza di quello che era stato uno degli attori più importanti della questione israelo-palestinese: l’ANP. Impegnato nella campagna per l’approvazione della risoluzione con la quale l’Assemblea generale dell’Onu ha riconosciuto alla Palestina (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est) lo status di "paese osservatore non-membro", Abu Mazen aveva inizialmente visto accogliere le proprie dichiarazioni distensive circa la sua opposizione all’insorgere di una “Terza Intifada” con sprezzo da parte del ministro degli esteri israeliano Lieberman, che ha minacciato dure contromisure nel caso di un’adozione di tale risoluzione.
La seconda guerra di Gaza ha reso evidente un cambiamento nei rapporti di forza fra le fazioni palestinesi, dove l’interlocutore principale risulta ora essere Hamas, con il suo leader Khaled Meshal, in esilio da molti anni e protagonista delle trattative per il cessate-il-fuoco al Cairo. La popolarità di Hamas, dopo il recente conflitto e, ancor più, dopo la firma della tregua, si estende ora anche in Cisgiordania.
Fatah, al contrario, il partito laico maggioritario nell’ANP che governa la Cisgiordania, nonostante il riconoscimento di Israele, sembra avere di fatto perso ruolo e visibilità con l’arrestarsi del processo, sostenuto dagli Stati Uniti, che avrebbe dovuto condurre alla firma di un trattato di pace.
Il voto del 29 novembre all’Onu riapre i giochi per Fatah che, negli ultimi giorni, ha ricevuto il sostegno di Hamas per l’iniziativa che prima di allora aveva avversato. Nelle intenzioni di Abu Mazen, il cambiamento di status[1] è l’ultima opportunità per la ripresa della strada dei “due Stati”. I palestinesi sperano inoltre che l’accesso agli organi delle Nazioni Unite possa portare nuovi diritti: in particolare l’appartenenza alla Corte Penale Internazionale potrebbe essere usata per accusare Israele di crimini di guerra se la strada del negoziato si dovesse nuovamente rivelare fallimentare.
Nello stesso giorno del voto all’Onu, il presidente Abu Mazen ha annunciato che presto si recherà in visita nella Striscia di Gaza.
Il prossimo 22 gennaio si terranno in Israele le elezioni politiche anticipate.
La ragione del ricorso alle urne prima della scadenza del mandato della Knesset, in ottobre, deriva dall’impossibilità di trovare un accordo sull'approvazione di un “bilancio responsabile”.
L’attuale premier Benjamin Netanyahu e il suo ministro degli esteri, Avigdor Lieberman, presenteranno una lista unica dei rispettivi Partiti: il Likud (destra) e l'Israel Beitenu (destra nazionalista).
Netanyahu resta favorito nei sondaggi anche se, dopo la firma della tregua con Hamas, i suoi consensi sono calati. Il sondaggio realizzato dall'istituto demoscopico Maagar Mohot per conto del quotidiano Maariv il 23 novembre, attribuiva alla coalizione delle destre circa 70 seggi (su 120) mentre i rimanenti 50 sarebbero distribuiti dalle formazioni di centro sinistra[2].
L’attuale ministro della difesa, Ehud Barack, già primo ministro, ha annunciato il suo prossimo ritiro dalla vita politica.
L’ex ministro degli esteri Tzipi Livni, sconfitta alle primarie per Kadima, ha invece annunciato la costituzione di un nuovo partito, il Movimento, con il quale, in coalizione con altre formazioni del centro sinistra, sfiderà Nethanyahu.
La risoluzione presso l’Assemblea generale dell’Onu che ha innalzato lo status della Palestina è stata adottata con il solo voto contrario di Stati Uniti, Canada e Israele. Il voto favorevole di tanti paesi ritenuti amici da Israele, come anche l’astensione della Germania, è stato considerato una sorta di tradimento. Il Portavoce del governo, Mark Regev, ha dichiarato che la svolta pone palestinesi e israeliani fuori dal processo negoziale.
Bisognerà attendere i prossimi giorni per capire in che modo la risoluzione dell’Onu impatterà sulle varie forze politiche e sulla campagna elettorale già iniziata.