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Temi dell'attività Parlamentare

La controversia con l'India sui due marò imbarcati sulla 'Enrica Lexie"

L'arresto dei marò

Il 15 febbraio 2012, al largo delle coste indiane del Kerala (Stato sud occidentale dell’Unione Indiana), nel Mar Arabico, la petroliera battente bandiera italiana Enrica Lexie ha incrociato un’imbarcazione non identificata, che procedeva nella sua direzione senza rispettare l’alt intimato dai segnali luminosi del mercantile italiano, che rappresentano un codice di comunicazione tra navi, necessario per identificarsi a distanza in quelle acque ad alto rischio pirateria.

L’area rientra infatti in una delle zone ad alto rischio pirateria, individuata già nel 2011 dall‘International Transport Workers Federation (ITF) nel tratto che va dalle coste somale verso est, sino al meridiano 76 e verso sud al parallelo 16, e quindi in acque internazionali direttamente confinante con le acque territoriali indiane. Nelle aree ad alto rischio pirateria: i mercantili sono invitati ad adottare le misure di autoprotezione raccomandate dall’IMO (International Maritime Organization); i marittimi imbarcati percepiscono un raddoppio delle indennità giornaliere e gli armatori pagano premi di assicurazione maggiorati.

Nel corso dell’episodio i militari del reggimento San Marco imbarcati sulla Enrica Lexie, con compiti anti – pirateria, hanno esploso alcuni colpi di avvertimento per mettere in fuga l’imbarcazione sospetta.

Successivamente il peschereccio indiano St. Anthony, con undici uomini di equipaggio, rientrava nel porto di Kochi (sulla medesima costa del Kerala), con due marittimi uccisi da diversi colpi di arma da fuoco.

Le autorità del Kerala invitavano, con un pretesto, la Enrica Lexie a rientrare a Kochi e procedevano all’arresto di due marò del reggimento San Marco, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, accusandoli di aver ucciso i due pescatori.

La vicenda giudiziaria e le trattative diplomatiche

A un anno di distanza, l’epilogo della vicenda sembra ancora lontano; per la lentezza del sistema giudiziario indiano, appesantito da una folta burocrazia, ma anche per il continuo braccio di ferro diplomatico tra l’Italia, il governo centrale indiano e lo Stato del Kerala, che faticano a trovare un punto d’incontro. Data la struttura federale della Repubblica indiana, la partita diplomatica infatti non è bilaterale, ma vede almeno tre attori direttamente coinvolti.

In questo intricato quadro, che contiene ancora molti punti oscuri circa gli avvenimenti e le successive indagini che ne sono scaturite, l’azione del governo italiano e segnatamente del Ministero degli Esteri si è immediatamente attivata con la presenza in India del sottosegretario De Mistura ed è stata continua e incessante.

La linea sostenuta con fermezza dall’Italia, che ha sempre cercato di non entrare specificatamente nel merito della vicenda e delle indagini (offrendo contemporaneamente l’assistenza legale ai due militari e non facendo loro mancare il suo appoggio), è che l’episodio incriminato sia avvenuto in acque internazionali (dove vige il diritto dello Stato la cui nave batte bandiera) e che i due Marò in quel momento stessero esercitando funzioni di militari in missione all’estero e che dunque agissero per conto dello Stato italiano; in tale veste essi godono dell’immunità della giurisdizione rispetto agli Stati stranieri.

D’altra parte, lo Stato del Kerala ha da subito considerato il fatto di propria competenza, in quanto i due pescatori uccisi erano di nazionalità indiana; con il governo centrale che ha sin qui avuto uno strettissimo margine di manovra, a causa della autonomia delle autorità locali e dell’indipendenza della magistratura rispetto al potere politico.

La strategia diplomatica italiana è stata quella di affrontare la questione su un piano internazionale (ad esempio affermando che l’episodio si potrebbe trasformare in un “pericoloso precedente” per le missioni antipirateria in cui è fondamentale la cooperazione internazionale) e coinvolgere più paesi possibili quali sostenitori della sua linea e allo stesso tempo strumenti di pressione nei confronti dell’India.

Inizialmente la diplomazia italiana si era mossa attraverso i “canali della fede”. Attraverso la mediazione del Vaticano, il Ministero degli Esteri aveva infatti interessato della questione il nuovo arcivescovo della chiesa siro – malabrese del Kerala, George Alencherry, nominato cardinale da Benedetto XVI una settimana dopo gli avvenimenti in questione. Alencherry aveva subito invitato le autorità locali a non agire con precipitazione e a non strumentalizzare gli eventi a fini elettorali (si avvicinavo infatti le elezioni nello Stato del Kerala, dove circa due milioni di persone vivono di pesca); si era poi rivolto al Ministro del turismo indiano, K. V. Thomas, cattolico di rilevante influenza, anch’egli presente durante la messa dei neocardinali con il Papa.

Il sottosegretario agli Esteri, Staffan De Mistura, è stato tra i più attivi in questa lenta e paziente azione diplomatica. Grazie ad una continua presenza in India, De Mistura si è spesso impegnato in lunghe trattative con le autorità indiane ogni volta che si presentavano nuovi sviluppi sulla vicenda. Come quando, tre settimane dopo la morte dei due pescatori, si sono aperte le porte del carcere di Trivandrum per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. De Mistura si è opposto con forza alla reclusione dei due militari italiani in un centro di detenzione per detenuti comuni, trattando con il direttore del carcere per ottenere una soluzione più adeguata.

Tre settimane dopo il fermo della Enrica Lexie nel porto di Kochi, anche l’Unione europea, nella figura dell’Alto Rappresentante per la politica estera, si è decisa a schierarsi a supporto dell’Italia nella sua azione diplomatica per giungere, secondo le parole di Catherine Ashton, “ad una soluzione soddisfacente”. Secondo alcune fonti, l’intervento europeo non sarebbe stato spontaneo, ma sarebbe avvenuto dietro la precisa richiesta del rappresentante italiano al Cops (Comitato politico di sicurezza dell’Ue). L’intervento dell’Alto Rappresentante in soccorso dei militari italiani non ha tuttavia portato i risultati sperati. Ha anzi rischiato di trasformarsi in un boomerang nel momento in cui la Ashton, commentando il suo incontro con Mario Monti sulla cooperazione Italia India in materia di pirateria, ha definito i marò “guardie di sicurezza armate private”. Una frase particolarmente infelice, dato che proprio sul fatto che Latorre e Girone abbiano agito come organi dello Stato italiano (in quanto militari) si fonda una buona parte della strategia di difesa legale e diplomatica dell’Italia.  

Subito dopo la Ashton ha corretto il tiro, riformulando la frase con l’aggiunta del termine “distaccamenti di protezione delle navi”, l’espressione tecnica che indica appunto i nuclei militari di scorta ai mercantili.

La tela diplomatica tessuta dal Ministro Terzi e dai suoi collaboratori ha consentito di trovare un appoggio anche nella Gran Bretagna (anche se i due paesi non lo hanno mai ammesso in modo esplicito). A circa un mese dal fermo dei due militari italiani, a margine di una riunione dei ministri degli esteri a Copenaghen, Terzi ed il suo omologo inglese William Hague hanno avuto un fitto colloquio, durante la quale molto probabilmente si è discusso della detenzione dei marò in India e della possibilità di far valere la giurisdizione italiana.

Il G8 che si è svolto a Washington lo scorso aprile (due mesi dopo il giorno della morte dei due pescatori indiani) ha poi riaffermato, nel suo documento finale, il principio che attribuisce alla bandiera delle navi il diritto di giurisdizione in caso di incidente in acque internazionali: un endorsment formale alla posizione sostenuta dall’Italia nel negoziato con l’India, correlato dalla firma degli otto ministri degli esteri.

Alla fine dello scorso aprile, il Ministro Terzi affermava di aver ottenuto l’appoggio di una ventina di paesi di ogni parte del mondo, che erano intervenuti presso l’India per favorire una soluzione del braccio di ferro diplomatico. Anche la riunione dell’Asean (Associazione delle nazioni del sud – est asiatico), svoltasi a fine aprile, dove Terzi ha partecipato nel quadro dei rapporti Ue – paesi Asean, ha riaffermato il principio della giurisdizione.  

La paziente azione diplomatica dell’Italia ha registrato un momento di tensione quando, nel giugno scorso, sono state formalizzate le accuse per i due marò da parte delle autorità del Kerala: omicidio, tentato omicidio, associazione a delinquere e danneggiamento. A seguito dei gravi capi di imputazione, l’Italia ha adottato la linea dura (secondo alcuni voluta da Staffan De Mistura), ovvero richiamare in patria per “consultazioni” l’ambasciatore italiano in India Giacomo Sanfelice.

La diplomazia italiana ha poi ripreso la strategia collaborativa che può tenere aperti più canali di comunicazione possibili ed ha conseguito un primo risultato positivo, quando il 30 maggio, dopo 82 giorni trascorsi nel carcere di Trivandrum, i marò sono stati rilasciati su cauzione.

Alla fine di ottobre, il Ministro Terzi ha subito preso contatti con il nuovo Ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid (musulmano di 59 anni del Partito del Congresso), sottolineando l’urgenza di una soluzione positiva del caso che vede coinvolti i due fucilieri della Marina militare.

L’Italia ha portato il caso anche all’attenzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, a margine della riunione delle Nazioni Unite per l’accordo sull’estensione del protocollo di Kyoto, che si è svolta lo scorso dicembre a Doha. La diplomazia italiana si stava preparando ad alzare il tiro e a mettere in campo una strategia di delegittimazione internazionale dell’India nel quadro della lotta alla pirateria, ma pochi giorni dopo sono arrivati due segnali distensivi. Il primo è stato la concessione della licenza natalizia (della durata di due settimane) per i due marò, che hanno così potuto trascorrere le festività in patria con le loro famiglie (sono rientrati in India il 3 gennaio). Il secondo è stato la pronuncia della Corte suprema di New Delhi del 19 gennaio scorso, che ha negato la giurisdizione alla Corte del Kerala sul caso, stabilendo che ad occuparsi della vicenda sarà un tribunale speciale, costituito in coordinamento dal governo e dalla stessa Corte suprema. Un risultato non di poco conto la “de-keralizzazione” del processo, visto che nell’arco dell’anno appena trascorso in questo Stato si è venuta a creare una certa pressione mediatica e dell’opinione pubblica nei confronti dei marò, che avrebbe potuto influenzare in maniera negativa l’eventuale processo.

Gli sviluppi più recenti

Il 22 febbraio 2013, ai due marò è stato concesso nuovamente, dalla Corte suprema indiana, un permesso di quattro settimane per tornare in Italia in occasione delle elezioni politiche svoltesi il 24 e 25 febbraio scorso e per poter riabbracciare i loro cari. 

L'11 marzo scorso, l'ambasciatore italiano a Nuova Delhi Daniele Mancini ha dichiarato che i due fucilieri di marina non torneranno in India alla scadenza del permesso che era stato loro concesso per ritornare in Italia a votare, sulla base di un decisione assunta d'intesa con i ministeri della Difesa e della Giustizia e in coordinamento con la presidenza del Consiglio dei ministri.

Si apre quindi, in sede giuridica, una controversia internazionale con l'India, poichè, come riportato nella nota verbale della nostra Ambasciata, "l'Italia ha sempre ritenuto che la condotta delle Autorità indiane violasse gli obblighi di diritto internazionale gravanti sull'India in virtù del diritto consuetudinario e pattizio, in particolare il principio dell'immunità dalla giurisdizione degli organi dello Stato straniero e le regole della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS) del 1982''.