Dopo cinque giorni, le manifestazioni in corso a Daraa venivano represse duramente dalle forze dell’ordine il 23 marzo 2011: fonti ospedaliere riportavano il dato di 37 morti, mentre per gli organizzatori delle manifestazioni il bilancio sarebbe stato più grave, con circa 100 morti. Il 24 marzo il consigliere del presidente Assad Bhutayana Shaaban annunciava l’avvio di un processo di riforme, attraverso la convocazione di un Alto comitato di studio incaricato di predisporre l’abrogazione dello stato diemergenza in vigore ininterrottamente dal 1963, e di elaborare una legge sui partiti, per superare il monopolio del partito Baath. Veniva inoltre annunciato l’aumento del 30% degli stipendi dei pubblici dipendenti, unitamente all’introduzione di misure anti-corruzione. Tuttavia, il 25 e 26 marzo nuove manifestazioni venivano promosse dall'opposizione a Daraa ed a Latakia, città di origine della famiglia Assad, accompagnate da nuovi scontri. Il regime annunciava contestualmente il rilascio di prigionieri politici detenuti nelle carceri siriane. Il 27 marzo il consigliere Bhutayana Shaaban annunciava la decisione della revoca dello stato di emergenza,da sostituire con una nuova legislazione antiterrorismo, nonché la prossima costituzione di una nuova compagine governativa. Nelle giornate successive al 24 marzo quella siriana emergeva a tutto tondo come ulteriore situazione di consistente instabilità politica nel quadro dei paesi arabi in fermento. Una prima valutazione dei fatti indicava nelle proteste scoppiate anche in Siria una combinazione tra le richieste di maggiori libertà civili e politiche avanzate dagli storici dissidenti del regime, la cui influenza era però limitata, e circoscritta alle aree urbane, e l’insoddisfazione di alcuni clan tribali (quali quello degli Abizaid) assai influenti nelle aree rurali, insoddisfazione legata a fattori politici locali e a presunti episodi di corruzione. Questi fattori si inserivano nel delicato equilibrio siriano che vedeva il controllo del governo – sia pure su basi laiche e attraverso l’ideologia nazionalista panaraba del Baath – da parte della famiglia Assad, appartenente alla setta di derivazione sciita degli Alawiti, in un paese a maggioranza sunnita. L'atteso discorso del 30 marzo del presidente Bashar al Assad veniva preceduto il giorno prima da segnali contraddittori: infatti, a fronte di una vasta mobilitazione pro-governativa, che attivisti di opposizione non hanno mancato di qualificare come forzata, vi sono state per la prima volta in mezzo secolo le dimissioni di un governo siriano sotto la spinta delle proteste popolari. Occorre peraltro ricordare che nel particolare sistema autoritario di governo che caratterizza il regime siriano la sostanza del potere si concentra, assai più che nel governo e del Parlamento, o anche nei vertici del partito Baath, nella ristretta cerchia alawita che occupa i vertici dei servizi di sicurezza e dell'élite militare: pertanto, le dimissioni di un governo non hanno carattere tale da porre in pericolo la sopravvivenza del regime, che ha altrove le sue roccaforti. Ciò è stato puntualmente confermato il 30 marzo dal discorso di Assad, che infatti è sembrato rivolgersi, molto più che alla popolazione, alla ristretta cerchia delle forze di sicurezza del regime. Il presidente siriano, il cui discorso ha subito provocato rinnovate proteste a Daraa ed a Latakia, lungi dall'annunciare l'abrogazione dello stato d'emergenza vigente in Siria da ormai 48 anni, è tornato a toccare il tasto del complotto internazionale contro il paese.
Assad ha anche rivendicato fedeltà alle promesse riformistiche formulate nel 2000, le quali tuttavia non sarebbero state attuate per via della situazione regionale di grande instabilità e, da ultimo, per i quattro anni di siccità nei quali il paese si è dibattuto. Ciò che il presidente ha ribadito con forza è stata la necessità di preservare la stabilità del paese, e per tale obiettivo non ha mancato di minacciare apertamente le opposizioni. Il discorso di Assad ha destato le critiche del Dipartimento di Stato USA, che si è detto profondamente deluso dell’intervento del leader siriano.
Dopo la delusione suscitata nell’opinione pubblica dal discorso del 30 marzo del presidente Assad, il governo è sembrato muoversi in direzione di concessioni anche importanti a gruppi religiosi o territoriali del paese, quali i sunniti e i curdi. Ciononostante la situazione della Siria si confermava quella più agitata nell’area medio-orientale. Il 14 aprile veniva annunciata la formazione del nuovo governo, unitamente alla liberazione di centinaia di prigionieri politici arrestati nelle settimane precedenti: l'abile strategia del regime siriano non ha però ottenuto i risultati sperati: infatti già il 17 aprile vedeva dilagare le proteste in ogni parte del paese, nonostante la spietata repressione messa in atto dalle varie forze di sicurezza pro-regime. Mentre proseguivano le uccisioni indiscriminate di manifestanti da parte delle forze sicurezza del regime di Assad, vi erano segnali del tutto opposti di apertura del regime, come quando il 19 aprile veniva annunciata l'approvazione da parte del nuovo governo di tre progetti di legge che avrebbero dovuto attenuare il rigore del regime di sicurezza nel paese. I progetti riguardavano rispettivamente la concessione del diritto di manifestazione previa autorizzazione del ministero degli interni, l'abolizione della Corte suprema per la sicurezza dello Stato e l’abolizione dello stato d'emergenza in senso proprio, che in Siria è rimasto ininterrottamente in vigore dal marzo 1963. Gli ambienti della dissidenza siriana manifestavano comunque sfiducia nella reale volontà di riforma delle autorità, le quali mantenevano il controllo sulla magistratura, nonché la normativa che conferisce loro l'immunità giudiziaria. L'abolizione del Tribunale speciale, poi, non eliminava il fatto che vi fossero ancora tremila detenuti politici, in carcere per condanne da esso pronunciate, e il diritto di manifestazione, com'è chiaro, rimaneva pur sempre subordinato al parere del ministero degli interni, cui si sarebbe dovuto preventivamente comunicare persino il tenore degli slogan che si prevedeva di scandire durante una manifestazione. Il 25 aprile il regime siriano lanciava una massiccia operazione militare contro la protesta, che non a caso colpiva con particolare forza proprio Daraa, investita addirittura da carri armati, con più di venti vittime. Il 26 aprile, mentre gli Stati Uniti disponevano il ritiro del personale diplomatico non essenziale e relative famiglie dalla Siria, a Daraa ha le forze di sicurezza isolavano l'abitazione del muftì che aveva aspramente criticato il governo e presentato le proprie dimissioni.
Il 27 aprile, con un'azione coordinata, erano convocati gli ambasciatori diDamasco a Parigi, Roma, Londra, Madrid e Berlino, per esprimere loro una forte condanna delle violenze e delle repressioni in atto nel paese: nello stesso tempo, la propensione dei paesi europei a imporre sanzioni contro la Siria si mostrava crescente, con particolare riferimento ad Italia e Francia, che avevano espresso questo orientamento già nel vertice bilaterale del 26 aprile.
Il 29 aprile il previsto “venerdì della collera” registrava una nuovamassiccia mobilitazione delle proteste in tutto il paese, alla quale il regime rispondeva in modo sanguinoso, provocando una sessantina di morti, soprattutto a Daraa: nella stessa giornata l'Amministrazione statunitense haimposto sanzioni economiche contro due esponenti del regime siriano, un fratello e un cugino del presidente Assad, per violazioni dei diritti umani.
Ben più pesanti sono state le sanzioni decise poche ore dopo a seguito di una riunionedel Comitato politico e di sicurezza dell'Unione europea - il maggior partner commerciale e donatore nei confronti della Siria. I 27 si sono accordati per l'applicazione rapida dell'embargo sulla fornitura di armi alla Siria, incluse le attrezzature utilizzabili in azioni di repressione contro i manifestanti. È stata inoltre avviata la procedura per la redazione di un elenco di esponenti politici da sottoporre a misure restrittive, come il divieto di concessione del visto e il congelamento dei beni eventualmente detenuti all'estero.
L'Unione europea ha inoltre reso noto di considerare congelata la procedura relativa all'Accordo diassociazione, che dall'ottobre 2009 attendeva la firma, e di essere intenzionata a procedere alla revisione della cooperazione bilaterale con Damasco, che nel periodo 2011-2013 prevedeva per la Siria un contributo europeo di circa 130 milioni di euro. A tali sanzioni si aggiungeva la decisione del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), che sospendeva un progetto quinquennale di aiuti alla Siria.
Nelle successive due settimane proseguiva la repressione, che provocava ancora numerose vittime, attuata in buona parte assediando con mezzi militari diverse città. Il regime di Assad l’11 maggio annunciava inoltre la formazione di una commissione incaricata di redigere una bozza di nuova legge elettorale.
Per quanto concerne l’attività repressiva, una valutazione del 13 maggio daparte dell’Alto commissariato ONU per i diritti umani parlava di circa 850 civiliuccisi dall’inizio della repressione, concentratasi in modo particolare il 6 e il 13 maggio, in occasione delle manifestazioni convocate in concomitanza dei venerdì di preghiera. Vi sono state anche più volte segnalazioni di interruzione dei servizi Internet diretti ai telefoni cellulari, che fanno capo in buona parte a una compagnia privata di proprietà di un cugino del presidente Assad. Va ricordato che il 10 maggio erano entrate in vigore le sanzioni dell’Unione europea - che al momento ancora escludevano la figura del presidente Assad - contro tredici alte personalità siriane, cui è stato negato il visto per l’ingresso in territorio europeo e sono stati congelati i beni eventualmente in esso detenuti (tali misure si accompagnavano al già richiamato embargo allo Stato siriano sulla vendita e fornitura di armi o attrezzature utilizzabili contro i dimostranti).
Un’altra conseguenza della situazione critica della Siria era la rinuncia diDamasco a candidarsi per un posto nel Consiglio per i diritti umani delle NazioniUnite, presentendo una secca sconfitta in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. D’altra parte la Siria trovava nella Federazione russa e nella Cina due validi alleati per impedire in seno al Consiglio di sicurezza l’adozione di qualsiasi sanzione, mentre le autorità di Damasco continuavano a impedire alla delegazione ONU inviata per accertare la situazione di Daraa – sotto assedio dal 25 aprile - di svolgere il proprio compito, negandole l’accesso alla città.
Il 18 maggio vi è stato uno sciopero generale indetto dal fronte del dissenso, mentre il regime, dal canto suo, proseguiva nella strategia di minimizzazione delle proteste e di sostanziale negazione della repressione, parlando invece di martiri delle forze di sicurezza uccisi da terroristi nel corso delle manifestazioni. Per iniziativa soprattutto della Francia e del Regno Unito il Consiglio dei ministri degli affari esteri dell'Unione europea, svoltosi a Bruxelles il 23 maggio, estendeva anche al presidente Assad e ad altri nove suoi collaboratori le sanzioni che avevano già colpito 13 personalità siriane di alto livello, consistenti nella negazione del visto di ingresso nel territorio dell'Unione europea e nel congelamento dei beni eventualmente in esso detenuti.
Il 26 maggio il Vertice G8 di Deauville lanciava un appello a Damasco aporre fine all'uso della forza contro i manifestanti - appello peraltro non firmato da Mosca. Va peraltro segnalata una certa evoluzione delle posizioni russe, poiché il presidente Medvedev esortava Assad a passare dalle parole ai fatti, ovvero alle promesse riforme. Analogo consiglio veniva alla Siria dalla Turchia, che auspicava un freno alla durezza della repressione e un ingresso degli islamici del governo di Damasco.
Il 31 maggio, mentre l'offensiva nella regione di Homs proseguiva, il regime concedeva quella che definiva un'amnistia generale, nella quale erano ricompresi anche tutti i detenuti politici appartamenti ai Fratelli musulmani - movimento posto fuorilegge da 31 anni – e ad altri partiti e correnti politiche ugualmente messi al bando da decenni (ma non agli appartenenti al Partito comunista del lavoro). Il provvedimento veniva tuttavia giudicato insufficiente e tardivo dai circa 300 oppositori siriani riuniti nella località turca di Antalya dal 31 maggio al 2 giugno. Analogo il giudizio del Dipartimento di Stato americano sul decreto di amnistia firmato da Assad.
Il 1º giugno il presidente Assad emanava un decreto per la formazione diun organismo incaricato del dialogo nazionale, la cui composizione non lasciava tuttavia spazio all'ottimismo, trattandosi di membri diretti del regime o di personalità indipendenti comunque ad esso assai vicine. Diverse voci internazionali si levavano intanto per denunciare i crimini della repressione in atto nel paese: l'UNICEF riferiva che almeno trentabambini erano stati vittime della repressione nelle ultime dieci settimane, mentre un numero ben più alto era stato ferito, arrestato o torturato. Human Rights Watch, dal canto suo, pubblicava il 1º giugno un rapporto basato su colloqui diretti con vittime o testimoni della repressione attuata dal regime nella regione meridionale di Daraa, da cui era partita la mobilitazione contro il regime: secondo il rapporto si sarebbero toccati livelli inauditi di orrore nella repressione e nelle torture contro i manifestanti.
Ad Antalya si concludeva intanto la conferenza degli oppositori edissidenti siriani, con l'invito ad Assad a dimettersi immediatamente, affidando la transizione a un direttorio con poteri limitati, come previsto dalla Costituzione in vigore. Gli oppositori hanno dato vita ad un organismo di coordinamento dellamobilitazione - attribuendo ad esso anche il compito di reperire fondi - composto da appartenenti alla Fratellanza musulmana, ai movimenti laici, ai curdi siriani, ma anche da alawiti, drusi, cristiani e indipendenti.
Il 3 giugno vi è stato il dodicesimo venerdì di proteste in tutto il paese: particolarmente cruento il bilancio nella roccaforte dei sunniti più conservatori, la città di Hama, che si trova tra la capitale e Aleppo, dove vi sarebbero state una cinquantina di vittime. L'Osservatorio siriano sui diritti dell'uomo confermava frattanto intanto la notizia della liberazione di oltre 450 detenuti a seguito dell'amnistia annunciata dal regime il 31 maggio.
Verso la confinante provincia turca dell’Hatay cominciavano intanto ad affluire centinaia di profughi siriani, alcuni dei quali feriti: il primo ministro turco Erdogan aveva infatti assicurato l'apertura della frontiera per i siriani in cerca di salvezza: il 14 giugno il numero dei profughi siriani in Turchiaraggiungeva quasi la cifra di novemila.
Va anche ricordato che in Libano erano arrivati dopo il 15 maggio circa seimila profughi dalla zona circostante alla città di Tall Kalakh, sottoposta ad assedio e saccheggiata dalle forze governative siriane e da bande di lealisti al regime di Assad. La morsa sullacittà di Jish ash Shughur, vicina al confine turco, si stringeva con sempremaggior forza, fino a che il 12 giugno l'escalation nella città nordoccidentale vedeva l’ingresso delle truppe governative con l'appoggio di carri armati ed elicotteri: conseguentemente, si sono moltiplicate le file dei fuggiaschi verso il confine turco.
Il Ministro degli esteri britannico Hague esortava il Consiglio di sicurezzadell’ONU ad adottare una risoluzione di chiara condanna della repressione, in ciò concordando con la Germania. Il Governo italiano, dal canto suo, chiedeva a quello siriano la cessazione di ogni violenza, nonché di permettere l'accesso alla Croce Rossa per interventi umanitari quanto mai necessari - il Ministro degli esteri Frattini, intervenuto al seminario internazionale sulla libertà religiosa di Fiesole, tornava poi sulla questione il 14 giugno, anch'egli esortando le Nazioni Unite a una presa di posizione chiara, forte ed ultimativa nei confronti di Damasco.
Per quanto concerne il fronte della protesta, va segnalato che il 13 giugno per la prima volta i presunti organizzatori della mobilitazione popolare, i Comitati dicoordinamento locale, rendevano noto il loro documento programmatico, nel quale si affermava che l'obiettivo era di assicurare, attraverso una transizione pacifica, il cambiamento del sistema politico e la fine del mandato presidenziale di Bashar al Assad, considerato il primo ''responsabile politico e legale dei crimini commessi nel Paese''.
I Comitati si definivano laici e privi di articolazioni confessionali, etniche o di classe, e chiedevano prima di tutto alle autorità di Damasco ''la fine delle uccisioni e delle violenze da parte delle forze di sicurezza, delle milizie” e dei lealisti alawiti armati, il rilascio di tutti i prigionieri politici; la fine della propaganda mediatica contro i manifestanti; l'apertura del Paese alla stampa araba e internazionale'.
Successivamente, si leggeva nel documento, si auspicava l'apertura di una Conferenza nazionale, dalla quale ''non saranno esclusi i membri dell'attuale regime'', purché in grado di dimostrare di non essersi macchiati di crimini contro il popolo siriano. I Comitati prevedevano ''un periodo di transizione di non oltre sei mesi, gestito da personalità civili e militari, durante il quale verrà redatta una nuova Costituzione, che limiterà a quattro anni non rinnovabili il mandato presidenziale. Al termine del periodo transitorio si svolgeranno elezioni libere e indipendenti”.
La prosecuzione dell'offensiva della regione nord-occidentale del paese daparte delle forze governative provocava un innalzamento della tensione con laTurchia, che negli ultimi annii era stato invece uno dei paesi più importanti per la politica estera di Damasco: il Primo Ministro Erdogan aveva nei giorni precedenti ripetutamente stigmatizzato le violenze contro i civili siriani che manifestavano contro il regime di Assad, e che li avevano costretti alla fuga in massa in Turchia. Parallelamente alle tensioni con la Turchia la Siria si è trovata in sempre maggiore difficoltà anche nei confronti dell'Unione europea, che il 23 giugno 2011 ha deciso di varare con effetto immediato un terzo pacchetto di sanzioni contro società ed esponenti siriani, includendovi anche tre alti ufficiali dell'Iran, che avrebbero collaborato con il regime di Assad nella violenta repressione delle proteste. Più in generale, cresceva l'isolamento internazionale del regime di Assad, e mentre il governo britannico invitava i connazionali a lasciare immediatamente il paese, il Segretario di Stato USA Hillary Clinton affermava che il presidente siriano non aveva ormai più alcuna possibilità di accreditarsi come riformatore, dopo la gravissima repressione messa in atto negli ultimi tre mesi contro le proteste del paese.
Il 20 giugno peraltro, dopo due mesi di silenzio, lo stesso Assad teneva un discorso di un'ora trasmesso in diretta tv, con argomentazioni non dissimili da quelle usate in precedenza, tornando a promettere con una certa genericità riforme politiche, ma soprattutto non menzionando affatto gli oltre 1.300 siriani vittime della repressione durante le proteste degli ultimi tre mesi. Le reazioni al discorso di Assad sono state comprensibilmente negative: il Ministro degli esteri italiano ha ravvisato nei toni usati dal presidente siriano forti analogie con le argomentazioni di Gheddafi quando iniziava la violenta repressione in Libia, mentre il suo omologo transalpino ha condiviso il giudizio di Hillary Clinton sull'irreversibilità del discredito internazionale della figura di Assad. Il 24 giugno decine di migliaia di manifestanti sono tornati nelle strade di tutta la Siria nell’ennesimo venerdì di protesta, mentre in Turchia si allestiva la sesta tendopoli per i profughi siriani, ormai giunti al numero di 12.000 a seguito dell'avanzata delle forze corazzate siriane verso il confine turco. Piccoli gruppi di profughi hanno raggiunto anche il territorio libanese, provenendo dalla regione di Homs.
Il 27 giugno si è tenuta in un hotel di Damasco una riunione di dissidenti e intellettuali siriani, durante la quale sono emersi diversi approcci alla questione del superamento dell'attuale regime siriano. La riunione ha destato peraltro numerose critiche in patria e all'estero, soprattutto dalle frange più radicali, che rifiutavano ormai ogni prospettiva di dialogo con il regime di Assad, il quale avrebbe tollerato l'incontro dei dissidenti a Damasco allo scopo di riaccreditarsi almeno parzialmente come riformatore, togliendo così mordente anche alla forza della contestazione di piazza.
Il 1º luglio si è avuto il sedicesimo venerdì consecutivo di manifestazioni diprotesta per le strade di quasi tutta la Siria, con un particolare fortissimo concentramento nella città di Hama, dove circa 400.000 manifestanti hanno tra l'altro festeggiato una sorta di vittoria per il ritiro dell'esercito avvenuto all’inizio di giugno. Le speranze dei manifestanti confluiti a Hama sono state amaramente deluse già il 5 luglio, quando dopo 48 ore di inutile resistenza le forze di sicurezza governative e le milizie lealiste hanno nuovamente occupato il centro della città, uccidendo a quanto pare più di dieci dimostranti. In tal modo, il regime siriano dimostrava l’interesse strategico e simbolico della città, da sempre roccaforte della resistenza musulmana sunnita contro il predominio della minoranza alawita cui appartengono lo stesso presidente Assad e gran parte dei membri del suo clan.
Frattanto, mentre il numero dei manifestanti uccisi a Hama raddoppiava, il 6 luglio Amnesty international chiedeva ufficialmente all’ONU di dar vita ad un'inchiesta sulla repressione del regime siriano nella città di Tail Kalakh, nei pressi del confine libanese, ove vi sarebbero state le prove di numerosi casi di torture, arresti arbitrari e morti in stato di detenzione. Secondo Amnesty international il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite doveva spingersi a deferire la situazione siriana al procuratore della Corte penale internazionale, in quanto il comportamento del regime di Damasco avrebbe configurato veri e propri crimini contro l’umanità.
Il nuovo venerdì di protesta dell'8 luglio ha visto ancora una volta un duro confronto tra i manifestanti in tutta la Siria e le forze di sicurezza, il cui intervento avrebbe provocato almeno 16 vittime. Anche nella città di Hama, nonostante il rinnovato assalto delle forze armate e delle milizie filogovernative, le manifestazioni sono stati imponenti: qui tuttavia il fatto più eclatante era la presenza tra i manifestanti dell'ambasciatore statunitense Robert Ford, il quale si era recato a Hama nell’intento dichiarato di stabilire contatti con l’opposizione di piazza e verificare la fondatezza o meno della qualificazione, da parte del regime, dei manifestanti alla stregua di oppositori armati e terroristi. Anche l'ambasciatore francese Chevallier si era recato nella città per testimoniare l'impegno di Parigi a fianco delle vittime della dura repressione.
L’iniziativa dei diplomatici americano e francese provocava una dura reazione delle autorità di Damasco, che hanno accusato soprattutto Washington di voler fomentare un’insurrezione tramite il comportamento del proprio rappresentante in loco, il cui ruolo sarebbe stato appunto dimostrato dalla presenza nella città di Hama. A breve giro di ore manifestanti filogovernativi e milizie lealiste davano l’assalto alle ambasciate di Washington e Parigi a Damasco. Intanto il regime siriano, tra il 10 e l’11 luglio, tentava di rilanciare il dialogo nazionale in precedenza prospettato, dando vita a una riunione a Damasco con la partecipazione di membri del partito Baath e di esponenti “indipendenti” della società civile: l'appuntamento è stato tuttavia disertato dalle opposizioni, che hanno ritenuto impossibile l’avvio di ogni dialogo in presenza dell'occupazione militare di molte città del paese e della detenzione di avversari politici e pacifici manifestanti, rispetto ai quali le opposizioni hanno chiesto anche l'apertura di un'inchiesta sulle responsabilità delle violenze e dei crimini nei loro confronti messi in atto.
Il 16 luglio si svolgeva a Istanbul una riunione di oltre 300 dissidentisiriani in esilio, che ha registrato peraltro parecchie dissonanze. Una delle ipotesi più rilevanti emersa nel fronte antiregime è stata quella della possibilità di dar vita a un governo ombra composto in maggioranza da esponenti operanti all'interno del paese e da una minoranza di esponenti degli ambienti dell'esilio. Alcuni dei partecipanti alla riunione hanno anche ipotizzato la messa in atto di momenti di disobbedienza civile contro il regime di Assad, causando danni economici o addirittura una vera e propria paralisi del paese, piuttosto che impegnare uno scontro frontale con le forze di sicurezza che appariva suicida.
Il 25 luglio l'agenzia ufficiale del regime siriano (la Sana) dava notizia dell'approvazione di una legge per un sistema multipartitico controllato, che si inseriva nei tentativi del regime di accreditarsi come riformista, avendo già in precedenza messo fine allo stato di emergenza in vigore dal 1963, e avendo successivamente concesso un'amnistia per centinaia di prigionieri politici, inclusi appartenenti ai Fratelli musulmani, da sempre sono considerati il pericolo numero uno per Assad e la sua élite di potere alawita. Nulla invece sarebbe stato deciso con riferimento all'articolo 8 della Costituzione che l’opposizione voleva vedere abrogato, poiché esso sanciva il monopolio politico del Partito Baath al potere.
In ogni modo, il testo della nuova legge prevedeva che per ogni nuovo partito il permesso di costituirsi fosse accordato da un comitato, il quale avrebbe vigilato per non ammettere alla vita politica formazioni costruite su basi religiose o tribali - tale previsione poteva effettivamente costituire una forma di rassicurazione per gli USA e l'Europa, ma anche, soprattutto, per Israele, che pur non coltivando sentimenti amichevoli verso il regime di Assad, poteva considerarlo tuttavia come una garanzia rispetto a possibili derive etniche o confessionali della Siria. Va comunque registrata, parallelamente a queste aperture, una fitta rete di arresti, probabilmente per prevenire ulteriorimanifestazioni in occasione dell'imminente inizio del Ramadan, che avrebbe reso tutto più difficile per il regime, potenziando le capacità di mobilitazione delle opposizioni.
Al proposito, dopo pochi giorni, l’organizzazione non governativa Avaaz asseriva che dall’inizio delle proteste nel paese (metà di marzo) erano scomparse nel nulla circa tremila persone, oltre ai 12.600 arrestati e a più di 1.600 vittime della repressione. Nell’ultima settimana soltanto gli arresti avrebbero riguardato un migliaio di persone. La poca credibilità delle mosse del regime siriano veniva confermata dalla decisione del Qatar, per lunghi anni solido alleato di Damasco, di sospendere le attività della propria ambasciata nella capitale siriana.
L'attenzione internazionale era poi in modo clamoroso nuovamente attratta dalla situazione in Siria il 31 luglio, quando carri armati dell'esercito entrati nellacittà di Hama hanno compiuto un massacro, provocando un centinaio di morti, mentre altri atti di repressione ne provocavano almeno trenta in altre città. L'azione aggressiva a Hama è stata accompagnata dalla consueta interruzione dell'erogazione di acqua ed elettricità. Ondate di protesta si sono diffondevano immediatamente in tutto il paese, mentre una condanna pressoché unanime dei massacri emergeva a livello internazionale.
Per tutta risposta, il regime siriano non interrompeva la repressione a Hama nemmeno il primo giorno del Ramadan (1° agosto), provocando nella città almeno sei vittime e protraendo i bombardamenti sino a tarda sera. Di fronte all'ostinazione di Assad l’Unione europea imponeva il quarto round di sanzioni contro il regime siriano, portando a 35 i componenti dell’elenco di suoi esponenti colpiti nei loro beni e nei loro spostamenti nel territorio dell'Unione europea.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite veniva inoltre convocato inseduta straordinaria proprio per una discussione della situazione siriana, ma lostesso Consiglio era intanto bloccato dalla contrarietà di Cina e Russia ad approvare una risoluzione contro la Siria: alla fine prevaleva la linea del Brasile, quando il 3 agosto il Consiglio di sicurezza approvava una dichiarazione presidenziale non vincolante – anche da questa, peraltro, il Libano ha ritenuto di doversi dissociare.
Nella Dichiarazione il Consiglio di Sicurezza condannava le violazioni diffuse dei diritti umani e l'uso della forza contro i civili da parte delle autorità siriane, chiedendo l'immediata cessazione di ogni violenza. In particolare, pur esortando tutte le parti ad agire con la massima moderazione e ad astenersi da rappresaglie, compresi gli attacchi contro le istituzioni dello Stato, il Consiglio di Sicurezza invitava le autorità siriane a rispettare pienamente i diritti umani e ad adempiere ai loro obblighi ai sensi del diritto internazionale, punendo quindi i responsabili della violenza. Il Consiglio di Sicurezza invitava anche le autorità siriane ad alleviare la situazione umanitaria nelle aree di crisi, consentendo l'accesso rapido e senza ostacoli alle agenzie umanitarie internazionali.
Nella seconda settimana di agosto il regime siriano, proseguendo in uno schema ormai consolidato, concentrava la pressione in un’altra zona del paese, ritenendo ormai evidentemente di aver spento ogni focolaio di resistenza a Hama: i carri armati del governo si sono mossi verso la regione orientale dell'Eufrate, a forte connotazione tribale e confinante con l'Iraq, per una nuova azione militare, in un contesto teoricamente sempre più difficile per Damasco, poiché gli Stati Uniti - ma anche l'Italia - tornavano a invitare tutti i propriconnazionali a lasciare con effetto immediato il paese, mentre anche le monarchie arabe del Golfo, e soprattutto l'Arabia Saudita, condannavano l'eccessivo uso della forza da parte del regime siriano.
Proprio mentre veniva messa in atto una dura repressione nella città diDayr az Zor, con la morte di una quarantina di persone, il regime tornava a promettere libere e trasparenti elezioni nel paese entro la fine dell'anno, e si mostrava incurante anche del richiamo dei propri ambasciatori decretato dai governi saudita, del Kuwait e del Bahrein. Al contrario, il regime di Damasco tentava di utilizzare il lento formarsi di una coalizione internazionale come una palese dimostrazione della veridicità delle accuse che da sempre aveva lanciato nei confronti di interferenze internazionali che si servirebbero di elementi terroristici.
In ciò il regime veniva oggettivamente aiutato dalle permanentispaccature in seno al consiglio di sicurezza dell’ONU anche dopo che questo aveva ascoltato il rapporto del segretario generale previsto nella Dichiarazione presidenziale del 3 agosto: in particolare, il Brasile l'India e il Sudafrica davano molto credito alle timide ammissioni di Assad di un qualche errore commesso dalle forze dell'ordine siriane, mostrando di prestare fede ai progetti di democrazia multipartitica e di libere elezioni più volte agitati dal governo di Damasco.
Alla metà di agosto il governo siriano apriva un ulteriore fronte nellarepressione, con al centro la città di Latakia, che non è solo il principale porto della Siria, ma anche la città da cui proviene il clan alawita di Assad: la morsa su Latakia è durata diversi giorni, e l’ingresso delle forze di sicurezza nella città avrebbe poi provocato la fuga precipitosa di oltre cinquemila rifugiati palestinesi ospitati nel campo di Raml.
Proprio la metà di agosto sembrava aver segnato un passaggio irreversibile nel livello di sfiducia della Comunità internazionale verso la Siria: un coro unanime – che ha visto uniti il presidente degli Stati Uniti, l'Alto rappresentante dell'Unione Europea per la politica estera, il presidente francese e i Primi Ministri di Germania e Regno Unito - invitava con fermezza Assad a lasciare il potere. Gli Stati Uniti inoltre disponevano poi ulteriori congelamenti di beni siriani nel loro territorio, come anche il divieto di effettuare investimenti in Siria e di qualunque scambio commerciale di prodotti petroliferi con Damasco. Mentre il 19 agosto segnava, nel ventiquattresimo venerdì consecutivo di proteste, un nuovo pesante bilancio di almeno 22 vittime; l'Unione europea arricchiva con ulteriori venti nominativi di persone e società l'elenco dei soggetti colpiti dalle sanzioni di Bruxelles. A favore di Assad giocava però ancora un parziale ripensamento di Mosca, non convinta di doverne richiedere le dimissioni, ma anche un analogo e meno atteso atteggiamento della Turchia, che pure nelle ultime settimane, anche per il timore di ripercussioni sulle proprie frontiere, si era fatta interprete di una forte contrarietà alla repressione in Siria. Il 21 agosto, poi, per la prima volta il presidente Assad si è fatto intervistare dalla tv di Stato, delineando una vera e propria roadmap del processo di riforma, comprensiva di una nuova legge sui media, nonché della revisione della posizione di supremazia del partito Baath nel sistema costituzionale siriano. In tal modo, secondo Assad, avrebbe dovuto essere possibile svolgere entro il 2011 le elezioni amministrative, e non oltre due mesi dopo quelle legislative. L’ultima settimana di agosto vedeva permanere la dispersione delle forze oppositive al regime siriano, nonostante l'annuncio a Istanbul della nascita del Consiglio nazionale siriano, che avrebbe dovuto essere rappresentativo di tutte le opposizioni, ma che ha incontrato subito notevoli dissensi, e in particolare da parte dei Comitati di coordinamento locale, la principale forza di mobilitazione interna contro il regime di Assad. Sul piano internazionale, tuttavia, il regime siriano ha dovuto subire la condanna da parte del Consiglio ONU per i diritti umani, con una risoluzione approvata nonostante il voto contrario della Russia e della Cina. Il 2 settembre vi è stato un giro di vite per le sanzioni europee contro la Siria: infatti, per la prima volta è stato colpito direttamente il settore petrolifero, con un embargo riguardante l'acquisto, l'importazione e il trasporto sia del petrolio che degli altri prodotti derivati, ad eccezione dei contratti già in corso, che su iniziativa dell'Italia sono stati salvaguardati fino al successivo 15 novembre. Le nuove sanzioni hanno altresì ampliato l'elenco dei soggetti siriani sottoposti a congelamento dei beni e a divieto di ingresso nel territorio europeo, includendovi quattro nuove personalità e altri tre organismi. La repressione tornava ad infierire il 7 settembre a Homs, e due giorni dopo, in occasione del ventiquattresimo venerdì di proteste contro il regime: questi eventi hanno determinato il rinvio della missione a Damasco del segretario della Lega Araba Nabil al Arabi, che avrebbe dovuto essere latore di una ambiziosa proposta di soluzione della difficile situazione siriana, articolata in 13 punti, con l'obiettivo di condurre alla formazione di un governo di unità nazionale e alla preparazione di elezioni presidenziali libere e trasparenti, il tutto sotto la supervisione della Lega Araba medesima. A sei mesi dall’inizio (metà marzo 2011) della repressione, il regime siriano insisteva nel tentativo di accreditare alcuni progressi sulla via della liberalizzazione del paese, con la prosecuzione delle sessioni del dialogo nazionale e con l'annuncio della creazione del primo partito non affiliato al Baath per opera di quattro dissidenti moderati. Il 15 settembre, tuttavia, il Segretario generale delle Nazioni Unite sosteneva che il presidente Assad era venuto meno alla promessa di fermare la repressione e che un'azione coerente della Comunità internazionale appariva ormai indispensabile. L'Unione europea intanto proseguiva nell'inasprimento delle sanzioni contro Damasco, approvando un pacchetto incentrato sull’estensione dell'embargo petrolifero agli investimenti nel relativo settore in Siria. Venivano inoltre colpite ulteriori personalità ed entità imprenditoriali siriane, soprattutto quelle collegate con la comunicazione a favore del regime e con la produzione di strumenti per la repressione. Per quanto concerne le dinamiche interne del regime di Damasco, dopo che in agosto era stato rimosso, ufficialmente per motivi salute, il Ministro della difesa, il 24 settembre il regime annunciava la morte per infarto di un vicecapo di stato maggiore dell'esercito. Queste notizie venivano interpretate generalmente come la risposta del regime ad alcuni dissensi, o anche solo a titubanze, negli alti gradi delle forze armate, nei quali fino a quel momento non si erano registrate defezioni, numerose invece tra i sottufficiali. La sostituzione, in particolare, del ministro della difesa con il cristiano Dawud Rajha – con evidente tentativo di coinvolgimento dell’elemento cristiano nella repressione generalizzata - portava l'attenzione sulla difficile posizione delle comunità cristiane in Siria nell'attuale contingenza: se infatti avevano destato disappunto le ripetute attestazioni di fedeltà dei cristiani alla politica del regime di Assad, non va dimenticato che tale posizione derivava da due considerazioni ben fondate, ovvero da un lato dalla paura di una immediata vendetta del regime in caso di defezione dei cristiani, e dall'altro dalla cautela verso gli esiti dello scontro in atto, che potrebbe sfociare anche nel trionfo di elementi integralisti islamici. Dal 27 settembre nella regione centro-settentrionale di Rastan sono comunque iniziati scontri di natura in parte nuova, poiché hanno visto in campo un buon numero di disertori dalle forze armate, schieratisi a fianco della protesta. Dopo una battaglia di quattro giorni sembra che le forze governative abbiano avuto ragione dei ribelli, la maggior parte dei quali sarebbe stata trucidata. A Damasco, intanto, l’ambasciatore USA rischiava nuovamente l’aggressione per opera di bande lealiste, quando il 29 settembre si recava in visita ad un anziano dissidente. Il 5 ottobre segnava un deciso chiarimento a livello internazionale sull'atteggiamento nei confronti della crisi siriana: in questa data infatti il Consiglio di sicurezza dell'ONU veniva chiamato a votare su un progetto di risoluzione presentato da alcuni Stati europei, che conteneva la richiesta di misure appropriate da parte del regime di Assad per porre termine alla repressione ormai in atto da più di sei mesi. Il documento ha visto il voto favorevole di nove paesi, tra i quali Francia, Regno Unito, Germania, Portogallo, Stati Uniti, nonché della Bosnia-Erzegovina, della Nigeria, del Gabon e della Colombia. A fronte del voto contrario da parte di Cina e Russia, che ha bloccato per il meccanismo del veto l'approvazione del testo, vi sono state le astensioni dei rappresentanti di India, Sudafrica, Libano e Brasile. Peraltro, a fronte dell'opposizione completa della Cina, la Russia ha cercato di ammorbidire la situazione preannunciando la possibilità di incontrare esponenti delle organizzazioni di opposizione siriane interne e all'estero, e anche prospettando la necessità di un passaggio di mano del potere a Damasco in mancanza delle necessarie riforme, che dovranno però per i russi essere decise congiuntamente dal popolo e dal regime siriano. Per quanto concerne la prosecuzione della repressione in Siria, mentre venivano diffuse a Ginevra dal Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell'infanzia cifre agghiaccianti, riguardanti la morte di 187 bambini per mano delle forze di sicurezza del regime di Assad dall'inizio della contestazione, nel nord-est della Siria veniva perpetrato il 7 ottobre l’omicidio mirato contro un capo curdo, di orientamento moderato, componente del Consiglio nazionale siriano, la piattaforma di opposizione da poco costituita da dissidenti all'interno e all'esterno del paese. Mishaal Tammo, di 53 anni, aveva fondato un partito curdo che non mirava a creare una provincia autonoma all'interno della Siria: recentemente scarcerato dopo una detenzione di tre anni, l'8 settembre era scampato ad un altro attentato. Nella stessa giornata del 7 ottobre venivano uccisi in varie località del paese una ventina di oppositori. L'8 ottobre, ai funerali del leader curdo ucciso il giorno precedente, si registravano cinque vittime per mano delle forze di sicurezza, mentre altri sei civili venivano uccisi in diverse località della Siria. L'agenzia ufficiale d'informazione siriana riportava intanto notizie su un decreto emesso dal presidente Assad per dar vita a un comitato con il compito di elaborare in quattro mesi un progetto di nuova Costituzione: all'inizio delle proteste questa era in effetti una delle richieste fondamentali delle opposizioni, ma la mossa è apparsa inutile e tardiva, in quanto già da tempo gli oppositori si erano espressi in modo assolutamente contrario alla permanenza di Assad al potere e quindi ad ogni sua iniziativa di carattere istituzionale. L'importante riunione di emergenza del 16 ottobre della Lega Araba al Cairo, dopo che in seno all'organismo erano emerse richieste di sospendere la partecipazione di Damasco, si concludeva con la decisione di dar vita a una commissione per avviare il dialogo tra le parti in conflitto in Siria, entro al massimo 15 giorni. La situazione di grande tensione per la repressione in atto nel paese ha avuto un riflesso importante nelle relazioni con gli Stati Uniti alla fine di ottobre 2011, quando Robert Ford, capo della diplomazia statunitense a Damasco, è stato rimpatriato in seguito alle numerose e pesanti minacce ricevute, che Washington ha ritenuto di dover prendere sul serio. Il governo siriano, con una mossa con ogni evidenza ritorsiva, ha a sua volta richiamato per consultazioni l’ambasciatore negli Stati Uniti.
Gli ultimi giorni di ottobre hanno visto intrecciarsi nella vicenda siriana due piani apparentemente del tutto contrastanti, ossia la prosecuzione della dura repressione di ogni manifestazione di dissenso in tutto il paese, e il procedere di una difficile trattativa con la Lega Araba per una composizione del conflitto interno: va a questo proposito ricordato che la Lega Araba alla metà di ottobre aveva avanzato alla Siria una proposta di soluzione – sul momento non accolta - comprendente la fine della repressione, la liberazione dei prigionieri politici, l’avvio di un dialogo con le opposizioni sotto gli auspici della Lega stessa e il monitoraggio arabo dell’attuazione delle riforme promesse dal regime siriano. La trattativa tra Siria e Lega Araba è tuttavia proseguita, con incontri a Damasco e nella capitale qatariota Doha: nel frattempo nella seconda metà di ottobre le vittime della repressione sono state più di 340, e gli organismi cui hanno dato vita gli oppositori in patria e all’estero si sono spinti a chiedere l’istituzione di una no fly zone sulla Siria, oltre alla fornitura di armamenti ai numerosi militari che avevano disertato e combattevano contro le forze di sicurezza di Assad. Il presidente siriano, dal canto suo, ha tentato di dissuadere la Comunità internazionale da ogni interferenza in Siria, servendosi della minaccia di scatenare un altro Afghanistan, ma anche alludendo alle riforme che a suo dire il regime avrebbe già da tempo intrapreso, nonché allo scontro in Siria quale prosecuzione della pluridecennale lotta tra panarabismo e islamismo – quest’ultimo, secondo Assad, necessariamente destinato a sfociare nel terrorismo jihadista. La Lega Araba ha cercato di stringere il negoziato, prospettando al regime siriano i pericoli di un ulteriore inasprimento delle sanzioni occidentali, ma anche di un progressivo venir meno, di fronte al tragico scenario interno, dell’appoggio fino a quel punto incassato da Russia e Cina. Nella serata del 2 novembre la Lega Araba, durante l’incontro straordinario con la Siria tenutosi al Cairo, ha reso noto il raggiungimento di un accordo su tutti i punti prospettati – inclusa la fine della presenza militare nelle città -, ad eccezione dell’avvio di negoziati in Egitto con le opposizioni interne e all’estero. Infatti si è potuto convenire solamente sulla convocazione a Doha, entro due settimane, di colloqui indiretti tra le parti in causa, mediati dalla commissione ministeriale interaraba. Una prima smentita di fatto all’accettazione reale del piano di pace veniva dal sanguinoso attacco contro Homs, durato 6 giorni: l’esercito siriano è penetrato nella terza città del paese, epicentro delle sommosse antiregime. Le case sono state bombardate per giorni, e la città si è trovata senza cibo, acqua ed elettricità. I principali gruppi di opposizione hanno dichiarato che Homs era un’area disastrata e hanno chiesto l’intervento internazionale per la protezione dei civili. La settimana successiva ha visto crescere nel consesso interarabo la consapevolezza in ordine alla negatività dell’atteggiamento di Damasco. Dopo l’appello per il ritiro dalla Siria degli ambasciatori europei, lanciato dal presidente del Consiglio nazionale siriano Ghalioun in visita a Roma, la Lega Araba il 12 novembre ha deciso pressoché all’unanimità la sospensione della Siria dall’Organizzazione, dando a Damasco il termine di tre giorni per l’attuazione del piano di pace finora recepito solo a parole. La posizione della Lega Araba è stata corroborata anche dalla minaccia di ulteriori forme di pressione diplomatica, fino alla possibilità di deferire il caso siriano alle Nazioni Unite; nonché dalla previsione di incontri a breve con rappresentanti delle opposizioni al regime di Assad. La decisione della Lega Araba è stata salutata con favore dal Segretario generale dell’ONU, mentre in Siria vi sono stati attacchi contro le ambasciate turca e saudita, e contro i consolati di Ankara e Parigi a Latakia. Damasco ha inoltre organizzato il 13 novembre manifestazioni a favore del regime, e ha chiesto con urgenza una riunione della Lega Araba, il cui segretario, l’egiziano al-Arabi, rendeva noto che l’Organizzazione era in procinto di esaminare misure per la protezione dei civili siriani – il che sembrava confermare i timori di Assad per l’apertura di uno scenario simile a quello che aveva preceduto l’intervento internazionale in Libia. A fronte della prosecuzione della repressione governativa contro i manifestanti e gli oppositori cresceva il numero dei disertori, ora organizzati in un Consiglio militare provvisorio, che reagivano alle violenze dei loro commilitoni. Dopo la sospensione della Siria da parte della Lega Araba, il 16 novembre la Turchia e la Lega Araba, riunite a Rabat per un vertice congiunto, ribadivano tuttavia la contrarietà a interventi stranieri in Siria. La Lega Araba concedeva, nel vertice marocchino, ulteriori tre giorni alla Siria per attuare quanto concordato il 2 novembre, ma nelle stesse ore a Damasco venivano assaltate anche le ambasciate del Marocco, del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti, mentre il giorno prima il regime aveva rilasciato quasi 1.200 manifestanti, pur proseguendo nella sanguinosa repressione del dissenso. Il 20 novembre il termine fissato dalla Lega Araba scadeva senza che la Siria – che nel frattempo aveva invano tentato di modificare parzialmente quanto previsto in ordine a una missione araba di 500 osservatori in Siria – avesse ottemperato a quanto richiesto dal consesso panarabo: lo stesso presidente Assad si diceva pronto a combattere, accusando la Lega Araba di preparare il terreno a un intervento internazionale nel paese. Il 21 novembre il Regno Unito, il cui Ministro degli Esteri Hague aveva incontrato una delegazione di oppositori siriani, nominava un ambasciatore ad hoc per i rapporti con il movimento di contestazione del regime di Assad. Dopo la sospensione della Siria da parte della Lega Araba, il 22 novembre l'Assemblea generale dell'ONU approvava a larga maggioranza una risoluzione di condanna del regime siriano, e di esortazione allo stesso perché applicasse il piano proposto dalla Lega Araba. Dopo una ulteriore proroga alla Siria, il 27 novembre la Lega Araba, per la prima volta, colpiva con sanzioni uno Stato facente parte dell’Organizzazione – la Siria, appunto -, in una giornata particolarmente sanguinosa della repressione interna. Le sanzioni includevano il congelamento delle transazioni commerciali e dei conti bancari del governo di Damasco, lo stop ai visti di ingresso nei paesi arabi per gli esponenti del regime, nonché l'interruzione dei rapporti degli Stati arabi con la Banca centrale siriana e degli investimenti arabi nel paese. Il 29 novembre a difendere il regime siriano interveniva la Federazione russa, preannunciando manovre navali in dicembre proprio nelle acque territoriali siriane, con un preoccupante possibile incrocio con le iniziative turche contro il proseguire della repressione in Siria. In costanza della violenta repressione in Siria, il 2 dicembre il Consiglio ONU per i diritti umani approvava – con la contrarietà russa e cinese - una risoluzione di condanna delle violazioni “estese e sistematiche” dei diritti umani nel paese. La Siria protestava, definendo la risoluzione un’ingiustificata interferenza nei propri affari interni. Nella prima metà di dicembre la Siria riusciva a temporeggiare rispetto alla firma del protocollo per l'invio di osservatori della Lega Araba nel paese, ponendo ad esempio una serie di condizioni, al primo posto delle quali si trovava l'annullamento delle sanzioni che proprio la Lega Araba aveva imposto contro la Siria alcuni giorni prima. Frattanto il furore repressivo del regime siriano giungeva alla messa al bando dal paese degli iPhone, considerati pericolosi strumenti di documentazione, nonché all'arresto della titolare di un noto blog, Razan Ghazzawi, prelevata mentre cercava di recarsi dalla Siria in Giordania. Prendeva quota inoltre una guerra commerciale tra la Turchia e la Siria, che rispondeva alle sanzioni economico-commerciali di Ankara imponendo una tassa del 30% sull'importazione di prodotti turchi, e altre imposte sull'acquisto di combustibili e autoveicoli dalla Turchia: tali misure si aggiungevano alla sospensione della zona di libero scambio turco-siriana in vigore dal 2004, annunciata da Damasco come prima e immediata reazione alle sanzioni turche. A sua volta la Turchia ha rilanciato, con l'introduzione di una tassa del 30% su tutte le importazioni provenienti dalla Siria. Sul piano dell'attività internazionale va ricordato che tanto il segretario di Stato americano Hillary Clinton, quanto il ministro degli esteri italiano Giulio Terzi hanno incontrato in questo periodo esponenti dell'opposizione, riuniti nel Consiglio nazionale siriano: il Ministro Terzi, in particolare, ha voluto chiarire la posizione dell'Italia, basata su un progressivo inasprimento delle sanzioni contro la Siria, auspicabilmente per mezzo dell'adozione di una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU. A proposito delle vittime, va rimarcato che per la prima volta i calcoli dei comitati di coordinamento locali siriani e quelli dell'Alto commissariato dell'ONU per i diritti umani sono sembrati collimare quasi perfettamente, riferendo di un totale di oltre 5.000 siriani uccisi dall'inizio delle mobilitazioni. Il 14 dicembre vi sono state ancora 38 vittime, in una giornata caratterizzata soprattutto dal brutale assalto di milizie lealiste nella città di Hama. Lo stillicidio inesorabile di violenze, che ancora il 15 dicembre ha visto l'uccisione di una quarantina di persone, tra le quali stavolta anche alcuni soldati lealisti, costringeva anche la Russia a uscire dal proprio immobilismo e apresentare al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite un progetto di risoluzione di condanna di ogni violenza in Siria, compreso un uso eventualmente sproporzionato della forza da parte delle autorità. La posizione della Siria si aggravava anche in seguito alla pubblicazione nella stessa giornata di un rapporto di Human Rights Watch, dal quale è emerso – su testimonianza concordante di numerosi disertori - che sin dall'inizio del movimento di protesta i vertici dell'esercito e delle forze di sicurezza siriani avrebbero autorizzato l'uso di ogni forma di violenza per fermare le manifestazioni, ordinando in modo esplicito di sparare contro i dimostranti anche se disarmati e di procedere a torture e arresti illegali. Il 19 dicembre la Siria accettava, dopo sei settimane di estenuanti trattative, una parte rilevante del piano di pace della Lega Araba - cui Damasco aveva acconsentito formalmente già il 2 novembre -, ovvero l’invio di una missione di circa 500 osservatori arabi in territorio siriano. La Siria aveva comunque ottenuto che i movimenti degli osservatori si coordinassero con quanto richiesto dal governo per ragioni di sicurezza interna. Il raggiungimento dell’accordo è stato anche in parte risultato delle pressioni di Mosca e Teheran su Damasco. I primi osservatori giungevano a Damasco tre giorni dopo la firma dell’intesa tra Siria e Lega Araba, e la missione era a pieno organico entro Natale. La presenza degli osservatori non sembrava però aver modificato granché la situazione sul terreno, poiché veniva continuamente riferito di vittime civili durante rinnovate proteste contro il regime, mentre anche il fenomeno più recente degli attentati suicidi proseguiva, culminando nei due attacchi contemporanei del 23 dicembre e in quello del 6 gennaio 2012, in entrambi i casi a Damasco. Lo stesso svolgimento della missione della Lega Araba destava critiche, soprattutto per l’asserito scarso contatto con esponenti della contestazione al regime, oltre al fatto di una certa dissonanza tra quanto dichiarato dagli osservatori sul campo e quanto riferito dal Segretario generale della Lega Araba, decisamente più ottimista in ordine agli sviluppi siriani. Il nuovo anno registrava un cospicuo reingresso sulla scena mediatica del presidente Assad, con il quarto discorso televisivo (10 gennaio 2012) alla nazione dall'inizio della crisi politica del paese: Assad insisteva nel negare qualunque responsabilità diretta del regime nella sanguinosa repressione, attribuendo gli sviluppi tragici dei dieci mesi di proteste ad una serie di eventi innescata principalmente da una cospirazione contro il paese, che si sarebbe servita anche dell'azione di gruppi armati e terroristici. Proprio la lotta contro questi elementi avrebbe dovuto accompagnare secondo Assad l'azione riformistica del governo, peraltro già più volte preannunciata, e stavolta nella forma di emendamenti alla Costituzione da sottoporre al voto popolare entro il mese di marzo 2012, per tenere poi due mesi dopo elezioni legislative. Il presidente siriano ribadiva altresì la sua volontà di restare al potere. L'11 gennaio Assad ha rilanciato con un comizio in Piazza degli Omayyadi, a Damasco, davanti a una folla di propri sostenitori e sotto gli occhi della moglie e dei figli. Quasi a smentire i toni trionfalistici di Assad, tuttavia, vi è stata nella stessa giornata la defezione di uno degli osservatori della Lega Araba impegnati in Siria, algerino, che in un'intervista rilasciata ad al-Jazira ha accusato il regime siriano di perpetrare crimini e organizzare una serie di messinscene per depistare gli osservatori, utilizzando in pratica la missione della Lega Araba come un paravento dietro il quale proseguire nella repressione. Inoltre, un noto corrispondente di guerra francese, Gilles Jacquier, recentemente vincitore del premio Ilaria Alpi, ha perso la vita nelle stesse ore,mentre seguiva un corteo lealista nella città di Homs, colpito da schegge di mortaio. Mentre proseguiva senza soluzione di continuità l'ondata di violenze nel paese, che in effetti vedeva tra le vittime sempre più frequentemente anche appartenenti alle forze di sicurezza, la Siria rigettava con forza l’ipotesi, avanzata qualche giorno prima dall’emiro del Qatar, di inviare truppe di paesi arabi per fermare i massacri. Damasco si diceva pronta solo a considerare l'eventualità di una proroga del mandato della missione degli osservatori della Lega Araba. Il 22 gennaio si svolgeva nella capitale egiziana una riunione dei Ministri degli esteri degli Stati aderenti alla Lega Araba, nel corso della quale l'Arabia saudita annunciava il ritiro dei propri osservatori di fronte al mancato rispetto siriano del piano di pace. Alla fine della riunione si perveniva ad un risultato rilevante: la Lega Araba chiedeva ufficialmente alle Nazioni Unite il sostegno per il nuovo piano di pace, che prevedeva entro due mesi il trasferimento dei poteri del presidente Assad al suo vice e la costituzione di un governo di unità nazionale - una soluzione molto simile a quella adottata per lo Yemen. Collateralmente la Lega Araba decideva anche di estendere il mandato della missione di osservatori che aveva già operato in Siria per circa un mese. I Ministri degli affari esteri dell'Unione europea, riunitisi il 23 gennaio, concordavano nel sostenere il ruolo giocato dalla Lega Araba nella crisi siriana, approvando contestualmente l'undicesima tornata di sanzioni contro Damasco, con un'ulteriore estensione dei divieti sui visti e il congelamento di altri beni siriani in territorio europeo. Non vi sono stati tuttavia segnali di cedimento nel forte appoggio russo alla Siria. Mentre sul terreno gli scontri tra le forze di sicurezza e i disertori oramai numerosi prendevano sempre più il posto delle pacifiche dimostrazioni duramente represse, e il regime, nel timore di uno sblocco della situazione in seno alle Nazioni Unite che avrebbe potuto preludere all'intervento internazionale, cercava di accelerare le operazioni contro manifestanti e oppositori armati; sul piano diplomatico la Siria, pur continuando a rifiutare il piano di pace messo a punto dalla Lega Araba, il 24 gennaio acconsentiva però a una proroga della missione di osservatori della Lega Araba medesima in territorio siriano. La Lega Araba, dal canto suo, doveva fare i conti con il ritiro dell'Arabia Saudita e di altri stati monarchici del Golfo Persico dal team di osservatori. L’obiettivo del segretario generale al Araby è pertanto divenuto quello di portare la questione siriana al Palazzo di vetro, per ottenere maggiore prestigio e credibilità sulla proposta di pace avanzata alla Siria, pur scontando anticipatamente l'opposizione russa, intenzionata con il veto a bloccare ogni possibilità di via libera a un intervento internazionale contro il regime di Assad. L'escalation di violenza in atto in Siria trovava il 27 gennaio corrispondenza anche in Egitto, dove più di un centinaio di oppositori siriani assaltava l'ambasciata di Damasco, riuscendo a penetrarvi e a danneggiare alcune suppellettili, prima dell’intervento della polizia egiziana. Considerata la grave accelerazione delle violenze in Siria, il 28 gennaio la Lega Araba annunciava la sospensione della missione di osservatori, riservando ad un momento successivo una decisione definitiva sul destino di essa. Nel contempo, la Lega avviava colloqui con la Russia per un’intesa in sede ONU, ove sperava di far approvare una risoluzione, già messa a punto unitamente ad alcuni paesi occidentali, basata sul piano di pace già da tempo avanzato dalla stessa Lega Araba al presidente Assad. L'inizio di febbraio registrava il dispiegarsi di un intenso lavoro diplomatico concernente la situazione siriana, dapprima con il tentativo di far votare in Consiglio di sicurezza una risoluzione presentata dal Marocco per conto della Lega Araba che prevedeva l'uscita di scena di Assad, e successivamente, nel tentativo di ottenere il consenso russo e cinese, un testo molto ammorbidito, che in pratica si limitava alla condanna della repressione messa in atto dal regime di Assad. Anche su questo testo, tuttavia, il 4 febbraio si registrava il veto della Russia e della Cina, che innescava durissime reazioni delle cancellerie occidentali, come anche dei paesi appartenenti alla Lega Araba: in particolare, il 6 febbraio gli Stati Uniti hanno chiuso la loro rappresentanza a Damasco, mentre il giorno successivo gli Stati arabi appartenenti al Consiglio di cooperazione del Golfo e diversi paesi occidentali - Italia, Francia, Spagna e Olanda - hanno richiamato per consultazioni i propri ambasciatori in Siria. I paesi del CCG hanno fatto anche di più, giungendo ad espellere gli ambasciatori siriani accreditati nelle loro capitali e ad accusare il regime di Assad di massacro collettivo contro un popolo disarmato. Di fronte all’impasse diplomatica, nei giorni successivi alla bocciatura della risoluzione in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU si rincorrevano le indiscrezioni su progetti di fornitura di armi ai ribelli siriani, sulla valutazione da parte americana di possibili opzioni di intervento militare - sulle quali non vi sarebbe stato l'accordo dell'Unione europea, comunque pronta anche ad operare mediante piani di evacuazione di emergenza dalla Siria -, nonché sulla presenza in territorio siriano di agenti militari dei paesi occidentali, ipotesi questa agitata soprattutto dalla Russia. Il 12 febbraio la Lega Araba, riunita al Cairo, ha impresso un nuovo slancio agli sforzi per venire a capo della tragica situazione della Siria: infatti l'Organizzazione panaraba ha posto fine con nettezza alle ambiguità che avevano circondato lo svolgimento della missione di osservatori in territorio siriano, dichiarandone la cessazione, e rilanciando abbastanza clamorosamente con la richiesta alle Nazioni Unite della creazione di una forza di pace congiunta formata da Nazioni Unite e Lega Araba. È stato inoltre deciso di sospendere il coordinamento diplomatico tra paesi arabi e Siria, sia a livello bilaterale, sia in seno alle Organizzazioni internazionali. Di grande importanza appare poi la richiesta di sottoporre al diritto internazionale la punizione di quanti verranno ritenuti responsabili dei massacri contro la popolazione civile siriana. La Lega Araba ha altresì aperto con chiarezza al fronte degli oppositori al regime di Assad, ai quali, in cambio del raggiungimento di una maggiore compattezza ed unità di intenti, ha assicurato appoggio politico e finanziario, come dimostrava anche il via libera dato alla richiesta tunisina di ospitare il 24 febbraio una conferenza degli amici della Siria. Anche l’inizio di febbraio vedeva purtroppo proseguire lo stillicidio di attacchi delle forze armate e di sicurezza siriane contro i civili, mentre il regime di Assad continuava a presentare gli avvenimenti quale legittima reazione ad un complotto armato in atto nel paese. Già il 1º febbraio si registravano una sessantina di morti nella regione centrale di Homs e nei dintorni di Damasco, ma anche sulle montagne occidentali nei pressi del confine libanese. Dalla serata del 3 febbraio iniziava poi un pesante bombardamento della città di Homs, che secondo fonti dell’opposizione avrebbe provocato circa 250 morti e la distruzione di 30 edifici, fatti oggetto di colpi di mortaio e di artiglieria. Anche in altre località della Siria, come in un sobborgo a sud della capitale e nella città nordoccidentale di Hama vi sono state vittime della repressione. Per converso, le ambasciate siriane in molti paesi arabi ed europei venivano assaltate da seguaci dell'opposizione, che ne hanno quasi ovunque danneggiato gli arredi e sostituito la bandiera con il tricolore siriano dell'indipendenza. Dopo il veto russo e cinese del 4 febbraio alla risoluzione in discussione nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, il giorno successivo si registrava una recrudescenza dei combattimenti tra soldati governativi e disertori, con quasi sessanta vittime, mentre la furia degli oppositori siriani all'estero prendeva di mira anche le ambasciate russe in Libano e in Libia. Il 6 febbraio, nonostante l'imminente arrivo a Damasco del Ministro degli esteri russo Lavrov, con l’obiettivo di indurre il regime a considerare la possibilità di una trattativa con gli oppositori, oltre cinquanta persone morivano per bombardamenti a Homs e nei sobborghi di Damasco. Frattanto si registravano segnali di tensione nell'elemento militare delle opposizioni, ancora privo di una consolidata leadership. Il 10 febbraio anche l'ambasciata siriana a Roma veniva danneggiata da alcuni militanti del “Coordinamento siriani liberi” di Milano, successivamente arrestati. Nella stessa giornata del 10 febbraio un duplice attentato suicida ha colpito nella regione settentrionale Aleppo, il maggiore centro economico del paese, provocando la morte di 28 persone e il ferimento di oltre duecento. Finora non toccata dalla contestazione al regime di Assad, una settimana prima Aleppo aveva visto però le prime manifestazioni contro il governo, cui le opposizioni hanno attribuito la paternità degli attentati in funzione punitiva. Intanto, proseguendo il bombardamento di Homs e i combattimenti nei sobborghi di Damasco, si contavano il 10 febbraio almeno altre cinquanta vittime. Emergeva frattanto la possibilità che effettivamente elementi del terrorismo internazionale si fossero progressivamente infiltrati nel paese per sfruttarne l'instabilità. In tal senso si esprimevano ad esempio alcune fonti dell'intelligence statunitense, per le quali alla base di alcuni attentati perpetrati in Siria a partire dal dicembre 2011 vi sarebbero stati elementi di al Qaida provenienti dall'Iraq. Il 12 febbraio il capo di al Qaida al Zawahiri è sembrato in qualche modo dar ragione a questa ipotesi, intervenendo in video a sostegno della rivolta contro Assad, ma mettendo in guardia la popolazione nei confronti delle iniziative occidentali e di quelle della Lega Araba. Nella seconda metà di febbraio proseguiva la repressione violenta di ogni manifestazione di dissenso, con particolare accanimento contro le due città centrali di Homs e Hama, ma senza trascurare la capitale e l’area meridionale di Daraa. Frattanto veniva messa in campo un'intensa attività diplomatica intorno alla questione siriana, che ha visto però sempre la Russia e la Cina ostacolare ogni progetto della Comunità internazionale nei confronti di Damasco. Il regime di Assad il 15 febbraio ha annunciato che 11 giorni dopo si sarebbe svolto un referendum su un progetto di nuova Costituzione che prevedeva l'introduzione di un sistema multipartitico, dando corso alla soppressione del monopolio politico del partito Baath. Tuttavia, la nuova Costituzione avrebbe vietato tanto i partiti costituiti su base religiosa, quanto quelli a base regionale: in tal modo sarebbero stati comunque esclusi dalla competizione politica sia i Fratelli musulmani che i partiti curdi. Il progetto di Costituzione prevedeva inoltre l'elezione a suffragio universale diretto del presidente, per non più di due settennati. Da notare che il combinato disposto di altre previsioni del progetto costituzionale faceva sì che il presidente potesse essere soltanto di sesso maschile e di religione musulmana. La giurisprudenza islamica sarebbe stata posta alla base di tutte le norme del paese, e sarebbe stato abolito qualsiasi riferimento al socialismo nell'organizzazione socio-economica del paese. La reazione occidentale è stata quella di considerare l'offerta del regime assolutamente tardiva e non credibile, e ci si è spinti anche a parlare di una farsa. Il 16 febbraio l'Assemblea generale dell'ONU approvava un progetto di risoluzione di condanna della repressione attuata dal regime siriano, oramai definita più volte anche dallo stesso Segretario generale delle Nazioni Unite alla stregua di crimini contro l'umanità: il documento, presentato dall'Egitto a nome della Lega Araba, ha ricevuto il voto contrario di soli 12 paesi, mentre 17 si sono astenuti. Tra i contrari anche Russia e Cina, che proseguivano nel sostegno al regime di Assad, al di là di una dissociazione formale dagli aspetti più plateali della repressione. Mentre la Croce rossa internazionale intraprendeva trattative con il regime siriano per una temporanea cessazione delle ostilità volta a consentire di recare aiuto ai civili coinvolti nella repressione in diverse città della Siria, Cina e Russia inviavano propri emissari a Damasco, e si pronunciavano a favore del processo di riforme intrapreso dal regime con il progetto di nuova Costituzione. Il 22 febbraio un'inviata del Sunday Times e un fotografo francese rimanevano uccisi nel bombardamento dell'edificio in cui si trovavano nel quartiere Bab Amro di Homs, uno dei più martoriati dalla repressione. L'organizzazione Reporters sans frontières riferiva del ferimento di altri due giornalisti occidentali, e accusava il regime di aver bombardato intenzionalmente la casa in cui si trovavano le due vittime, poiché era ampiamente risaputo che essa ospitava da tempo giornalisti stranieri.
Intanto Nazioni Unite e Lega Araba incaricavano l'ex segretario dell'ONU Kofi Annan di intraprendere un'iniziativa diplomatica a tutto campo per tentare di giungere alla cessazione delle ostilità in Siria: anche la Cina e la Russia appoggiavano la nomina di Annan, soprattutto per togliere credibilità alla riunione del 24 febbraio degli amici della Siria, svoltasi a Tunisi su iniziativa della Lega Araba, e con l'adesione di Stati Uniti, Unione europea e Turchia. Nonostante una vasta partecipazione di circa 60 paesi, l'incontro si è chiuso senza particolari risultati, più che altro con una serie di dichiarazioni di intenti per un inasprimento dell'azione della Comunità internazionale verso il regime siriano. L’unica prospettiva credibile per una miglioramento del situazione nel paese mediorientale rimaneva pertanto l'iniziativa della Croce rossa internazionale per una tregua negoziata. Il 26 febbraio si svolgeva il previsto referendum costituzionale, con un'affluenza di poco superiore alla metà degli aventi diritto: il progetto veniva tuttavia approvato con una larghissima maggioranza da quasi il 90% dei partecipanti alla consultazione. Il 27 febbraio l'Unione europea varava il dodicesimo pacchetto di sanzioni contro il regime di Assad, procedendo in particolare al congelamento delle attività finanziarie della Banca centrale siriana, nonché al divieto del commercio di metalli preziosi e di diamanti e all'interdizione dei voli merci effettuati da compagnie siriane. Tali misure si aggiungevano all'embargo sugli armamenti e all'embargo sulle importazioni ed esportazioni di petrolio siriano già in precedenza deliberati. Alle 150 personalità ed entità della Siria già colpite dall'Unione europea congelandone i beni e bloccandone i visti di ingresso nel territorio dell'Unione sono stati aggiunti sette ministri del governo di Damasco. Successivamente, la sanguinosa repressione ha nuovamente raggiunto con particolare accanimento la roccaforte di Bab Amro nella città di Homs, nella quale peraltro sono rimasti per giorni prigionieri due reporter francesi, dopo che il 22 febbraio due altri loro colleghi avevano perduto la vita sotto le bombe del regime. Il 1º marzo fortunosamente i due reporter francesi hanno potuto raggiungere il Libano e mettersi in salvo, ma solo grazie all'aiuto di gruppi di ribelli al regime di Assad. Il 2 marzo il vertice dei Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea decideva un ulteriore inasprimento delle sanzioni mirate contro il regime siriano, riconoscendo altresì il Consiglio nazionale siriano come legittimo rappresentante del popolo, e dando il via a una raccolta di prove per l'incriminazione dei responsabili delle stragi dinanzi alla Corte penale internazionale. Intanto la situazione a Bab Amro, nonostante le affermazioni del regime di averne preso pieno possesso, si manteneva incerta, tanto che la Croce Rossa internazionale non poteva recare nel quartiere di Homs gli aiuti umanitari, limitandosi a rifornire le zone ad esso limitrofe e a soccorrere i numerosi profughi in fuga dalla regione centrale verso il confine con il Libano. La repressione proseguiva anche nella settimana successiva, concentrandosi in particolare contro la città di Idlib. Vi sono stati peraltro alcuni segnali di indebolimento del regime, quando l'8 marzo la televisione panaraba al Arabiya riportava notizie sulla diserzione di tre generali dell'esercito, che erano stati preceduti dall’ancor più importante abbandono del regime da parte del viceministro del petrolio Hussameddin, l'esponente di più alto grado a lasciare Assad dall'inizio delle proteste nel paese. Il 10 marzo l'ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, inviato dall'ONU e dalla Lega Araba per tentare di avviare una soluzione della questione siriana, si recava a Damasco: qui lo stesso presidente Assad ribadiva la versione ufficiale per cui la repressione in atto sarebbe stata occasionata esclusivamente dall'esistenza di gruppi armati e terroristi nel paese. Sostegno alla difficile missione di Kofi Annan veniva ribadito al Cairo nelle stesse ore da una dichiarazione congiunta della Lega Araba e della Russia, che tornavano a chiedere la cessazione delle violenze da qualsiasi parte perpetrate, la possibilità di un controllo da parte di istituzioni neutrali ma al di fuori di qualsiasi influenza straniera in Siria, il libero accesso di aiuti umanitari alla popolazione nelle zone più martoriate. Nella notte tra 11 e 12 marzo un nuovo atroce episodio di violenza si consumava a Homs, ove intere famiglie venivano decimate, con un bilancio di una cinquantina di vittime, tra le quali molte donne e bambini. Frattanto al Palazzo di Vetro non registrava progressi un’ulteriore bozza di risoluzione, incentrata sulla necessità dell’afflusso di aiuti umanitari urgenti alla popolazione siriana, e sulla quale persisteva lo scetticismo russo e cinese, i due paesi temendo sempre la ripetizione dello scenario libico di un anno prima. In questo contesto, nel quale oltre alla prosecuzione delle violenze contro i civili sarebbero stati ormai secondo l’ONU circa trentamila i siriani fuggiti nei paesi vicini e duecentomila gli sfollati interni; il regime, sulla base del referendum costituzionale di febbraio, indiceva per il 7 maggio elezioni legislative, subito bollate alla stregua di una farsa dal Dipartimento di Stato USA. Il 14 marzo anche il nostro paese ha sospeso l’attività della propria rappresentanza diplomatica a Damasco, richiamandone in patria il personale, per motivi di sicurezza e per dimostrare la riprovazione italiana per le violenze perpetrate dal regime siriano. Due giorni dopo il primo ministro turco Erdogan annunciato che il proprio paese stava valutando la possibilità di creare una zona-cuscinetto al confine con la Siria, in presenza di un costante flusso di profughi verso la Turchia, che sarebbero arrivati ormai al numero di quindicimila. Intanto il 17 marzo due esplosioni colpivano a Damasco la sede dei servizi di sicurezza dell'aeronautica e gli uffici della sicurezza criminale, provocando 27 vittime, per lo più tra i civili. I servizi di sicurezza dell'aeronautica erano particolarmente famigerati, in quanto ritenuti la più efficiente agenzia di controllo e direzione della repressione. Il 19 marzo giungeva a Damasco una squadra di cinque esperti nominati dall'emissario speciale dell'ONU e della Lega Araba per la crisi siriana, Kofi Annan, con l'obiettivo di esaminare congiuntamente con le autorità di governo siriane la possibilità di applicare alcune delle proposte elaborate dall'ex segretario generale delle Nazioni Unite. Altro personale ONU si trovava già dal giorno precedente in Siria per una valutazione sul campo della situazione umanitaria.
Quasi facendo seguito alle aspre critiche all'atteggiamento del governo siriano da parte della Russia, pronunciate dal ministro degli esteri Lavrov il 20 marzo, il giorno successivo il Consiglio di sicurezza dell'ONU approvava una Dichiarazione - con il concorso della Russia della Cina, che stavolta non si opponevano all’adozione del documento - nella quale si richiedeva a Damasco di attuare prontamente le proposte dell'inviato dell'ONU e della Lega Araba Kofi Annan. Tali proposte comprendevano il ritiro delle forze militari dalle città e il rilascio di tutti coloro che fossero stati arbitrariamente arrestati. Come notava lo stesso Ministro degli esteri francese Juppé, si delineava una certa evoluzione della posizione russa, in rapporto al fatto che il regime siriano appariva impermeabile a qualunque iniziativa internazionale, come dimostra il fatto che il giorno dopo la Dichiarazione del Consiglio di sicurezza, dunque il 22 marzo, si verificava un’intensificazione delle violenze, con un bilancio non inferiore a 70 morti. Tra l'altro veniva impedito anche a centinaia di famiglie che cercavano di abbandonare il territorio siriano per entrare in Giordania di lasciare il paese, costringendole ad accamparsi a ridosso della frontiera. La presa di posizione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite veniva comunque criticata da esponenti del Consiglio nazionale siriano, poiché giudicata troppo blanda. Il 23 marzo l'Unione europea adottava ulteriori misure sanzionatorie nei confronti di esponenti del regime siriano e di entità del paese, portando complessivamente a 126 il numero degli individui e a 41 il numero delle entità da esse toccati. L'ultima tornata di sanzioni riguardava quattro donne al vertice del potere siriano, ovvero la first lady, la madre del presidente Assad, nonché una sorella maggiore e una cognata di questi. Le ultime sanzioni hanno colpito anche il Ministro dell'elettricità, il ministro dell'amministrazione locale, alcuni sottosegretari e un imprenditore siriano. Due sono state invece le società toccate dalle nuove misure restrittive. Proseguiva intanto l’iniziativa di Kofi Annan, recatosi a Mosca il 25 marzo, e a Pechino il 27 marzo. L’acutizzazione dello scontro militare La crisi siriana sembrava dunque sempre più precipitare in una dimensione di scontro militare, come testimoniava anche la decisione di creare un Consiglio militare nel quale avrebbero dovuto confluire tutte le truppe dei disertori. La Turchia, che aveva visto sempre più deteriorarsi i rapporti con l’ex alleato siriano, dal quale oltretutto temeva di veder favorire un rilancio del terrorismo secessionista curdo del PKK; concordava con gli Stati Uniti, nell’incontro tra Erdogan e il presidente Obama a Seul (25 marzo), nel dare il via a forniture di carattere non militare ai ribelli siriani. La successiva settimana, apertasi con le speranze suscitate dal convergere della Russia e della Cina a favore del piano di Kofi Annan per la cessazione delle violenze nel paese, e soprattutto con l'annuncio del governo siriano (27 marzo) dell'accettazione del piano Annan; si è poi dipanata con il consueto elenco quotidiano di scontri e di vittime, senza sostanziali progressi verso il cessate il fuoco. Nulla infatti veniva attuato del piano, a cominciare dal ritiro delle truppe e delle armi pesanti dai centri abitati della Siria e dalla parziale tregua quotidiana per consentire la fornitura di aiuti umanitari laddove necessario. Profondo scetticismo era stato del resto espresso dagli oppositori siriani riuniti a Istanbul, ove il 28 marzo riuscivano a convergere su un itinerario mirante all’instaurazione di un governo transitorio dopo l'auspicata fine del regime di Assad. Gli oppositori ribadivano inoltre che il Consiglio nazionale siriano andava considerato l'interlocutore ufficiale e formale del popolo siriano. L'unico neo sulla riunione era la parziale defezione di alcuni elementi curdi, scontenti per la mancanza di prospettive di autonomia nel futuro assetto della Siria. Il vertice della Lega Araba, che per la prima volta in 22 anni si è svolto nella capitale irachena Baghdad (29 marzo), rilanciava l'esortazione alla Siria ad applicare immediatamente il piano Annan, constatando l'assoluta inerzia di fatto del regime di Assad nel dare seguito a quanto a parole accettato il 27 marzo. Tuttavia, Damasco non prendeva troppo sul serio quanto uscito dalla riunione di Baghdad, anche perché ufficialmente sospesa dalla Lega Araba. Va del resto rilevato che anche da parte dei ribelli si poneva un ostacolo non irrilevante all'attuazione del piano Annan, poiché anche questi ultimi non intendevanoo deporre le armi prima che a farlo fosse il regime siriano, ritirando i blindati e le armi pesanti dalle principali città. Il 1º aprile si svolgeva a Istanbul la seconda Conferenza degli amici della Siria, cui prendevano parte circa 80 paesi, dalla quale usciva l’indicazione di porre una data ultimativa al regime siriano per l'applicazione del piano Annan formalmente accettato. In particolare, il segretario generale della Lega Araba, al Arabi, esortava le Nazioni Unite ad adottare misure severe contro il regime di Assad, non escluse quelle previste dal VII capitolo della Carta dell'ONU, che riguarda gli interventi armati a difesa della pace. Nonostante questa presa di posizione, nel complesso la Conferenza non ha espresso alcun orientamento per armare direttamente i ribelli, bensì solo per appoggiarli finanziariamente. La Conferenza ha inoltre ribadito il riconoscimento del Consiglio nazionale siriano come legittimo rappresentante di tutti i cittadini e raggruppamento delle varie frange dell'opposizione. Lo stesso Consiglio nazionale siriano, peraltro, ha giudicato un po' tiepide le misure uscite dalla Conferenza di Istanbul, richiedendo l'apertura di corridoi umanitari per la popolazione sotto il tallone della repressione, nonché la fornitura di armi ai disertori dell'esercito siriano impegnati nei combattimenti.
La data del 10 aprile, entro la quale secondo l'inviato speciale dell'ONU e della Lega Araba Kofi Annan il governo siriano si sarebbe impegnato a ritirare le truppe dalle città e a cessare dalla repressione, diveniva il terreno di scontro con il regime di Assad: infatti la Siria ha sostenuto che il 10 aprile andava considerata data di inizio del ritiro delle proprie forze armate dai centri abitati, da completare semmai entro i due giorni successivi, ed esattamente entro le ore 6 del 12 aprile. Successivamente il regime di Assad manifestava la tendenza ad un’ulteriore dilazione del termine, considerando la mancanza di qualunque impegno delle forze di opposizione a cessare a loro volta dai combattimenti, che, si ricorda, il regime di Damasco aveva costantemente richiamato quale vera causa della repressione. L'atteggiamento della Siria prendeva corpo nonostante le esortazioni di Kofi Annan e dell'attuale Segretario generale dell'ONU a cessare immediatamente ogni violenza, e nonostante la seconda Dichiarazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU del 5 aprile, nella quale si ribadiva il pieno sostegno all'opera di Kofi Annan, con l'obiettivo di favorire l'accesso degli ormai indispensabili aiuti umanitari in Siria e avviare un processo di transizione politica verso un regime pluralistico nel paese. La Dichiarazione insisteva altresì sull’importanza di una credibile supervisione delle Nazioni Unite sul rispetto degli impegni assunti da Damasco - nella stessa giornata del 5 aprile, infatti, un primo gruppo di appartenenti alla missione di osservatori ONU giungeva nella capitale siriana. Nei giorni successivi la repressione e i combattimenti proseguivano, mentre da parte dell'opposizione armata siriana emergeva progressivamente un impegno ad aderire alla cessazione delle ostilità entro il 12 aprile, accompagnato però dalla minaccia di riprendere immediatamente i combattimenti in caso di inosservanza del cessate il fuoco da parte del regime di Assad. Ulteriori difficoltà si manifestavano poi con il coinvolgimento indiretto dei paesi confinanti, anzitutto della Turchia, che vedeva salire in modo esponenziale il numero di profughi provenienti dalla Siria, e il cui campo di Kilis veniva più volte attinto dal fuoco delle truppe governative siriane impegnate a scoraggiare l'esodo dei profughi o a fronteggiare oppositori armati - naturalmente ciò suscitava forti proteste da parte del governo di Ankara. Anche nel Nord del Libano il fuoco delle forze di sicurezza siriane provocava la morte di un cameraman della televisione libanese e il ferimento di due suoi colleghi, nelle stesse ore in cui due siriani e due turchi venivano feriti nel campo profughi di Kilis. La pericolosità delle tensioni turco-siriane era tanto maggiore alla luce delle accuse che Damasco rivolgeva alla Turchia, ma anche all’Arabia saudita e al Qatar, di sostenere attivamente e di addestrare i gruppi armati operanti nel paese. Esortazioni a rispettare gli impegni per la cessazione delle ostilità venivano nuovamente da Kofi Annan il 10 aprile, in occasione della visita in un campo profughi che ospitava siriani nel sud della Turchia. Nelle stesse ore, tuttavia, il Ministro degli esteri siriano poneva ulteriori condizioni all'espletamento del mandato della missione di osservatori, pretendendo anche di intervenire sulla composizione di essa, mentre le truppe governative provocavano la morte di un altro centinaio di persone. L’11 aprile il governo siriano, dopo un trionfalistico annuncio sulla sconfitta dei “terroristi” e la ripresa totale di controllo del territorio, si diceva pronto ad attuare la tregua a partire dal giorno successivo, mantenendo peraltro le truppe pronte a nuovi interventi. In effetti nella giornata del 12 aprile, nonostante sporadici bombardamenti a Hama e Homs, il cessate il fuoco veniva sostanzialmente rispettato da entrambe le parti, come rilevato con moderata soddisfazione da Kofi Annan. L’evoluzione della posizione russa e la Risoluzione 2042 La giornata del 12 aprile vedeva maturare a Washington, durante la seconda giornata della riunione dei ministri degli esteri del G8, un'evoluzione della posizione russa, disponibile ad accettare nella sede del Consiglio di sicurezza dell'ONU la discussione di una bozza di risoluzione per l'invio di una missione di osservatori in Siria. Mentre la tregua veniva rispettata solo parzialmente, tanto che nelle prime 36 ore le forze governative uccidevano una trentina di persone, al Palazzo di Vetro la Russia frapponeva qualche ulteriore resistenza all'approvazione del testo in discussione, giudicato da Mosca eccessivamente lungo e dettagliato. Il 14 aprile, infine, la bozza di risoluzione veniva approvata all'unanimità dal Consiglio di sicurezza (Risoluzione 2042): il testo approvato prevedeva l'invio immediato di una missione esplorativa in Siria, composta da non più di trenta osservatori militari non armati, allo scopo di controllare il rispetto del cessate il fuoco, ma anche degli altri punti del piano di pace sottoposto ad Assad da Kofi Annan, con particolare riguardo al ritiro delle forze militari e degli armamenti pesanti dai centri abitati. Le autorità siriane erano inoltre invitate a consentire il libero accesso del personale umanitario a tutte le persone bisognose di assistenza, facilitandone l’operato. La risoluzione conteneva inoltre l’intendimento del Consiglio di Sicurezza, qualora le parti avesero assicurato una cessazione duratura delle violenze, a dar vita immediatamente ad una vera e propria missione di monitoraggio dell’ONU in Siria. Il Segretario generale delle Nazioni Unite avrebbe dovuto riferire sull’attuazione della risoluzione 2042 entro e non oltre il 19 aprile 2012. La Russia, per bocca dell'ambasciatore presso le Nazioni Unite Churkin, avvertiva tuttavia che per l'invio della missione di osservatori vera e propria avrebbe dovuto essere approvata una seconda risoluzione, successivamente ad un rapporto sulla situazione siriana da parte del Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon. Nella serata del 15 aprile, comunque, giungevano a Damasco i primi osservatori dell'ONU, mentre il segretario generale Ban Ki-moon esprimeva preoccupazione per le violazioni della tregua, che avrebbero provocato nella giornata 13 vittime tra i civili. Peraltro il governo di Damasco metteva in qualche modo le mani avanti, precisando di non essere in grado di garantire l'incolumità degli osservatori se il loro lavoro e i loro movimenti non fossero avvenuti in completo raccordo con le autorità del paese, e ribadendo inoltre di avere il diritto di non accettare eventualmente la nazionalità di alcuni degli osservatori. A tale proposito il Consiglio nazionale siriano, per bocca di un suo esponente, ha esplicitamente accusato il regime di voler controllare tutti i movimenti della missione di osservatori, anche per mezzo della sezione speciale dei servizi di sicurezza che sarebbe stata creata già durante la missione di osservatori della Lega Araba dei mesi precedenti. Si confermava intanto il rispetto solo parziale della tregua in vigore dal 12 aprile da parte del regime siriano, e anche nella giornata del 16 aprile vi sarebbero state una trentina di vittime, soprattutto nella regione di Idlib, ma anche con bombardamenti su Homs e incursioni delle forze di sicurezza nelle province di Hama e Daraa. Il 19 aprile il Segretario generale dell'ONU denunciava il proseguire delle violenze da parte delle forze del regime e il mancato ritiro delle truppe e degli armamenti dalle città, mentre non vi era stato alcun rilascio di prigionieri e si continuavano a denunciare abusi contro di essi. Anche l'accesso di aiuti umanitari risultava ancora problematico. Da parte dei combattenti contro il regime di Assad venivano rivolte nella stessa giornata esortazioni a compiere operazioni militari mirate in appoggio alle azioni dei ribelli.
Il 21 aprile il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvava una seconda Risoluzione sulla Siria (la n. 2043), la cui urgenza era stata particolarmente sostenuta dalla Russia, votando all'unanimità l’invio di un contingente di non più di trecento osservatori militari disarmati, oltre alla necessaria componente civile. La missione deliberata (UNSMIS – United Nations Supervision Mission in Syria), guidata dal generale norvegese Robert Monod, della durata iniziale di 90 giorni e sulla quale già in precedenza le Nazioni Unite avevano firmato un protocollo d'intesa con il governo siriano, sarebbe stata soggetta ad una frequente (15 giorni) periodica valutazione da parte del Segretario generale dell'ONU che avrebbe riferito al CdS, soprattutto in ordine all'effettivo rispetto – fino a quel momento solo parziale - del cessate il fuoco. La Risoluzione invitava inoltre sia le autorità siriane che le opposizioni armate a porre fine a ogni combattimento, presupposto questo essenziale per la valutazione del Segretario generale sulle modalità e i tempi di dispiegamento di UNSMIS. Per quanto riguarda l’Italia, il Consiglio dei ministri ha autorizzato, l'8 maggio 2012, la partecipazione all’UNSMIS di militari italiani, nel ruolo di “osservatori delle Nazioni Unite”, non armati, fino ad un massimo di 17 unità. Gli attivisti dei comitati di coordinamento che si oppongono in Siria al regime non hanno nascosto la loro delusione, sostenendo che la missione avrebbe fallito il proprio obiettivo, in quanto insufficiente a coprire il vasto territorio siriano, e si sarebbe risolta solo in un’ulteriore concessione di tempo al regime di Assad. La nuova risoluzione apriva inoltre il problema di trovare l'accordo con la Siria sulle nazionalità dei componenti della missione, che Damasco desiderava il più possibile appartenere a paesi non ostili al regime di Assad. Il 23 aprile, mentre nuovamente si levavano voci a denunciare la perdurante repressione in atto nel paese, che violava l'impegno sul cessate il fuoco, nuove sanzioni europee e americane colpivano la Siria: in particolare, quelle decise dal Presidente USA Obama si sono rivolte verso una serie di tecnologie con le quali il regime sarebbe stato in grado di rintracciare e colpire gli oppositori mediante il controllo dei telefoni cellulari e dei social network della rete Internet. Il 26 aprile vi era, tra l’altro, l’uccisione di 11 bambini nel bombardamento di un palazzo a Hama – ma il governo ha attribuito l’esplosione all’attività di terroristi che preparavano ordigni -, nelle stesse ore in cui la Turchia ventilava la possibilità di portare in sede NATO la situazione di tensione del proprio confine con la Siria, oggetto nei giorni precedenti di ripetute violazioni durante l’inseguimento di profughi. Il giorno successivo un attentato suicida colpiva il centro di Damasco, confermando che il cessate il fuoco veniva sostanzialmente violato, con conseguente fallimento del piano di Kofi Annan, come già rilevato dalla Francia ed a seguire dagli USA. Quando il 30 aprile diverse esplosioni colpivano la città nordoccidentale di Idlib, solo da un mese ritornata sotto il controllo del regime di Assad, il governo aveva buon gioco nell’attribuire la morte di non meno di otto persone ai “terroristi”. Gli oppositori hanno tuttavia rigettato ogni responsabilità sulle autorità siriane, accusate di organizzare attentati – come alcuni episodi recenti avrebbero dimostrato – per poter figurare quali vittime del terrorismo agli occhi della Comunità internazionale. Del resto anche l’arrivo degli osservatori della Lega Araba nel dicembre 2011 era stato accompagnato, sempre secondo gli oppositori, da una serie di attentati. Il 3 maggio sono stati gli studenti universitari di Aleppo, solo da poco tempo unitisi alla contestazione del regime siriano, ad essere vittime della repressione, con una massiccia irruzione delle forze di sicurezza nei dormitori del campus, danneggiando suppellettili, procedendo ad arresti e - secondo quanto riferito – uccidendo due dei giovani ospiti del campus. Nel contempo si diffondeva la notizia dell’arresto di due figli del noto dissidente Fayez Sara, fondatore della Lega dei giornalisti siriani. Il portavoce della UNSMIS rilevava in effetti che non vi era ancora il completo rispetto del cessate il fuoco. Nemmeno le elezioni politiche del 7 maggio hanno segnato una ricomposizione dei contrasti: piuttosto, esse sono state boicottate anche da forze di opposizione moderata non colpite dalla repressione, in quanto giudicate solo un’operazione cosmetica del regime, il cui controllo sul Parlamento – già di per sé scarsamente incidente sulla vita politica siriana – non sarebbe venuto meno meno per la sola fine del monopolio politico del Partito Baath, giacché il Baath avrebbe continuato pur sempre a designare oltre la metà dei deputati su base corporativa, mentre il divieto della formazione di partiti a sfondo etnico o confessionale avrebbe reso possibile solo la presentazione di liste di candidati indipendenti piuttosto omogenei tra loro. Inutile dire che le elezioni sono state bollate alla stregua di una farsa dalle opposizioni più radicali. Il pessimismo sul destino della missione ONU si accresceva il 9 maggio, quando un attentato sfiorava addirittura un convoglio di osservatori che si dirigeva verso Daraa, e soprattutto il giorno successivo, con la morte di oltre 50 persone – tra cui 11 bambini - e il ferimento di trecento in un duplice attacco di kamikaze a Damasco. L’attentato veniva rivendicato due giorni dopo da un gruppo fondamentalista sunnita poco conosciuto, il Fronte della vittoria, che già si era attribuito in gennaio un analogo ma meno sanguinoso atto terroristico nella capitale. I dissidi all’interno del fronte delle opposizioni Il 13 maggio il Ministro degli Esteri Giulio Terzi riceveva a Roma il capo del Consiglio nazionale siriano Burhan Ghalioun, nella capitale italiana impegnato dal giorno precedente in un incontro del Segretariato del Cns. Proprio tale riunione contribuiva a sancire le perduranti divisioni nel fronte che si contrapponeva al regime di Assad, scosso da polemiche politiche e rivalità personali tra i dissidenti all'estero e quelli in patria - questi ultimi, riuniti in maggioranza nella Commissione di coordinamento nazionale (Ccn). Gli esponenti della Ccn accusavano il Cns di essere diretto solo da esponenti di élite espatriati, pur avendo un importante seguito di militanti all'interno della Siria I dissidi interni alle opposizioni siriane si sono acuiti dopo la rielezione di Ghalioun nella riunione di Roma, ove ha sconfitto il candidato Sabra, cristiano e più legato all’opposizione operante all’interno della Siria, tanto che lo stesso Ghalioun si è detto pronto alle dimissioni per scongiurare il completo fallimento dei tentativi di unificare il fronte delle opposizioni, e si è dopo pochi giorni effettivamente dimesso, criticando anche le divisioni tra laici e islamici in seno allo stesso Cns. Frattanto si verificavano, a partire dalla metà di maggio, casi di propagazione del conflitto siriano in Libano, che hanno destato comprensibilmente una grande preoccupazione sia nelle locali autorità che nella Comunità internazionale. Il 18 maggio lo stesso segretario generale dell’ONU, a seguito di prove presentategli dal rappresentante siriano alle Nazioni Unite, riconosceva la presenza di al Qaida in Siria e l’elevata probabilità che avesse portato a termine gli attentati di Damasco del 10 maggio. Nella stessa giornata del 18 maggio si svolgeva ad Aleppo – seconda città della Siria -, in concomitanza con il venerdì di preghiera, la più massiccia manifestazione di contestazione al regime dall’inizio delle proteste nel 2011.
Il 25 maggio i carri armati del regime siriano entravano per la prima volta anche ad Aleppo, ma, soprattutto, va segnalato il massacro di Hula, cittadina della provincia di Homs, dove pesanti bombardamenti di artiglieria attribuiti dagli osservatori dell’ONU ai carri armati delle forze governative – che peraltro hanno negato ogni responsabilità, attribuendola a forze terroristiche impegnate in un complotto straniero - provocavano più di cento morti, e tra questi moltissimi bambini. Tra le reazioni indignate della Comunità internazionale spiccava quella del ministro degli esteri italiano Giulio Terzi,il quale, incontrando a Roma l'omologo francese Laurent Fabius, richiedeva una nuova riunione del Gruppo degli Amici della Siria, per valutare ulteriori iniziative in sede ONU anche al di là del piano Annan, e definito inaccettabile lo sviluppo degli eventi in Siria. D'altra parte, il massacro di Hula ha fatto sì che l'Esercito libero siriano, essenzialmente composto da militari disertori, dichiarasse la fine del piano Annan, esortando le Nazioni Unite e i paesi amici dell'opposizione siriana a lanciare raid aerei contro le forze del presidente Assad, e preannunciando una escalation militare contro le forze governative, suscettibile di configurare sempre più la crisi siriana come una vera e propria guerra civile. La Russia peraltro continuava a puntare con forza sulla riuscita del piano Annan, mettendo in luce come le responsabilità delle violenze fossero ormai condivise dal regime e dall’opposizione siriani, e non sembrava disponibile ad accogliere una soluzione – che sarebbe piaciuta invece agli USA - come quella che nello Yemen ha portato all’allontanamento dal potere del presidente Saleh, mantenendo però alla direzione del paese buona parte del suo entourage politico. Il 28 maggio Kofi Annan tornava a Damasco, lanciando un appello per l’effettiva applicazione del piano di pace da lui stesso formulato, soprattutto con la fine delle violenze da chiunque perpetrate. La reazione alla strage consumatasi a Hula raggiungeva il 29 maggio un momento di coordinamento a livello europeo, con la decisione di Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito di espellere i rappresentanti diplomatici siriani nelle rispettive capitali, dichiarandoli persona non grata. Altrettanto hanno fatto gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia: i capi delle diplomazie europee hanno chiuso in modo apparentemente irrevocabile ogni possibilità per Assad di rimanere alla guida della Siria, e anche il premier turco Erdogan ha parlato di situazione ormai giunta al limite da parte del regime di Assad. La Russia, invece, ha proseguito nel sostegno al regime siriano, continuando a lanciare appelli alla fine delle violenze a tutti gli attori del conflitto, ed esortando l’ONU a condurre un'inchiesta imparziale sui fatti di Hula, sui quali veniva peraltro reso noto dall’Alto commissariato ONU per i diritti umani che i resti delle vittime avrebbero suggerito che solo una piccola parte di esse sia stata provocata dai colpi di artiglieria, mentre quattro quinti dei morti sarebbero stati uccisi in un secondo tempo, in vere e proprie esecuzioni, anche con armi da taglio, da parte dei miliziani filogovernativi – questo tragico clichet si sarebbe poi ripetuto nei giorni successivi in varie circostanze.
Va rilevato come le divisioni nel seno dell'opposizione al regime di Assad siano proseguite e semmai si siano aggravate - i vertici all'estero dell’Esercito di liberazione siriano (ELS) non hanno condiviso l'ultimatum di 48 ore lanciato il 30 maggio dai ribelli operanti all'interno della Siria perché il regime di Assad applicasse finalmente tutti punti del piano Annan - e va altresì segnalato come, in modo abbastanza strumentale, la questione siriana fosse ormai entrata pienamente anche nella campagna per le presidenziali americane. Il candidato repubblicano Romney infatti accusava il presidente Obama di consentire il massacro siriano rifiutandosi di armare i ribelli, mentre l'Amministrazione in carica ribattvae che, per le divisioni al loro interno e le loro caratteristiche ancora in buona parte non chiarite, sarebbe stato troppo rischioso consegnare armamenti alle numerose fazioni dell'opposizione; anche sul piano europeo si rilevavano notevoli divergenze di posizione, con il Belgio quale unico sostenitore della prospettiva di intervento armato in Siria - ma il neopresidente francese Hollande non escludeva a sua volta del tutto tale eventualità -, mentre la Germania, ad esempio, affidava solo alla via dei negoziati e della politica la soluzione del rebus di Damasco. Ciò consentiva al presidente russo Putin, teoricamente in difficoltà per il costante appoggio alla permanenza del regime siriano, di affrontare senza troppe difficoltà il doppio vertice del 1º giugno a Berlino e del 2 giugno a Parigi, rispettivamente con la cancelliera Merkel ed il Presidente francese, facendo valere l'approccio più morbido della Germania nei confronti di una Francia per la quale era assolutamente improponibile l'ipotesi di una permanenza di Assad al potere. In tal modo, comunque, né la Germania né la Francia riuscivano ad ottenere alcun cedimento russo sulla prospettiva, perlomeno, di un inasprimento sanzionatorio nei confronti di Damasco. Il ruolo di sostegno al regime siriano da parte di Cina e Russia veniva confermato anche il 1º giugno, quando il Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani approvava a Ginevra una risoluzione di condanna del massacro di Hula, con una maggioranza nella quale non figuravano né Mosca né Pechino. Il 2 giugno, mentre una sessione straordinaria della Lega Araba convocata in Qatar sollecitava nuovamente il rispetto del piano di pace di Kofi Annan, minacciando in caso contrario l'uso della forza, lo stesso Kofi Annan paventava la prospettiva di una guerra a tutto campo ormai imminente in Siria. Inoltre, il 2 e 3 giugno il conflitto siriano tornava a riecheggiare anche nel Nord del Libano, dove nella città di Tripoli vi sono stati 14 morti e più di trenta feriti in rinnovati scontri tra gruppi sunniti e alawiti. Nemmeno l’intervento di Assad in Parlamento (3 giugno) offriva speranze di una qualche evoluzione positiva della situazione: il presidente siriano tornava ad accusare forze straniere e terroristiche per l’escalation delle violenze, incluso il massacro di Hula, e in tal senso escludeva qualsiasi possibilità di dialogo con il Consiglio nazionale siriano. Dure critiche ha destato il discorso di Assad da parte dell’Arabia Saudita – il cui capo della diplomazia ha auspicato la creazione in Siria di una zona-cuscinetto – e della Turchia, per bocca del premier Erdogan. Il Vertice tra Russia ed Unione europea svoltosi nei pressi di San Pietroburgo e concluso il 4 giugno non ha portato novità in riferimento alla tragedia siriana: le parti hanno sì convenuto sulla necessità di sostenere ulteriormente l’attuazione del Piano Annan, ma confermando le divergenze già registrate in ordine al livello di pressioni da esercitare sul regime siriano e sul suo capo Bashar al-Assad – la cui permanenza al potere, tuttavia, la Russia ha precisato subito dopo – e nello stesso senso si è espressa Pechino - non è una priorità inderogabile. All’interno della Siria appariva poi con chiarezza il superamento della tregua che i ribelli avevano accettato all’inizio dell’applicazione del Piano Annan: soprattutto dopo il massacro di Hula essi dichiaravano di voler riprendere i combattimenti a protezione delle popolazioni siriane attaccate dal regime, mentre chiedevano a gran voce l’intervento armato della Comunità internazionale. Che il conflitto siriano, nello stallo sostanziale della diplomazia, precipitasse sempre più in una sorta di guerra civile, sembrava confermato anche dal relativo calo del numero dei civili uccisi, accompagnato dal netto incremento delle vittime tra i governativi e i ribelli in armi. Il 5 giugno, come ritorsione all’espulsione degli ambasciatori siriani decretata il 29 maggio in diversi Paesi occidentali, la Siria dichiarava indesiderati 17 diplomatici. Il 6 giugno – mentre a Damasco veniva incaricato un ex ministro dell’agricoltura di dar vita al nuovo governo dopo le contestate elezioni legislative del mese precedente - si svolgeva il Vertice russo-cinese a Pechino, dal quale usciva la proposta di una Conferenza internazionale per garantire l’attuazione del Piano Annan. Parallelamente, paesi occidentali e arabi si erano ritrovati a Istanbul nell’ambito del gruppo degli Amici della Siria, esprimendosi per nuove sanzioni contro Damasco e per il deciso avvio di un processo di transizione. A quest’ultima prospettiva sembravano però opporsi le gravi divisioni interne al fronte degli oppositori del regime di Assad, come anche i rischi di degenerazione in uno scontro confessionale aperto tra sunniti e alawiti in Siria e nel vicino Libano.
Il 6 giugno si assisteva anche ad una nuova strage di civili ad opera dell’artiglieria governativa e delle milizie lealiste alla periferia di Hama: il bilancio è stato di circa cento vittime, di cui venti bambini. La nuova strage faceva dichiarare apertamente il giorno dopo al segretario generale Ban Ki-moon, davanti all’Assemblea generale dell’ONU, che il regime di Damasco aveva ormai perso ogni legittimità. Segnali di ricompattamento delle opposizioni al regime siriano si sono avuti il 10 giugno, quando il Consiglio nazionale siriano, nella riunione di Istanbul, eleggeva il nuovo leader, nella persona del curdo lungamente esiliato in Svezia Abdelbasset Sied, una figura potenzialmente capace di coinvolgere maggiormente le minoranze etniche e religiose della Siria nell’opposizione ad Assad. Sied ha subito annunciato che il Cns avrebbe assunto la direzione dei ribelli armati operanti all’interno del paese, inquadrati nell’Esercito libero siriano. Sied, inoltre, è tornato a lanciare un vibrante appello alla Comunità internazionale perché, ai sensi del Capitolo VII della Carta dell’ONU, autorizzasse un intervento armato a protezione dei civili siriani. L'11 giugno gli osservatori della missione ONU in Siria facevano rilevare una ulteriore escalation da parte del regime di Assad, con l'uso di elicotteri militari contro le basi della ribellione armata, e nel mezzo del conflitto sempre più numerosi erano i civili intrappolati e privi anche dei più elementari mezzi di sussistenza. Non a caso gli stessi osservatori si sarebbero impegnati nell'evacuazione di un gran numero di civili, fra cui naturalmente anche donne e bambini, bloccati nella città di Homs. Un rapporto sempre di fonte ONU evidenziava subito dopo gli orrori nei quali venivano coinvolti in Siria i bambini, uccisi, incarcerati e fatti oggetto di ogni forma di violenza, fino a utilizzarli come scudi umani nei convogli di soldati governativi. Anche i ribelli, tuttavia, si sarebbero resi responsabili di tali atrocità, con il reclutamento e l'uso in combattimento di numerosi bambini. Il 13 giugno la Francia tornava con forza, per bocca del ministro degli esteri Fabius, a invocare un intervento delle Nazioni Unite basato sul capitolo VII della Carta dell'ONU, che avrebbe consentito di armare coloro che vengono inviati sul campo. Inoltre, Fabius è tornato a ventilare l'opportunità di imporre una parziale no fly zone sui cieli siriani, a protezione dei civili delle zone più martoriate. Emergeva intanto il raccapricciante assassinio di una madre e di cinque figli tutti di età non superiore a sei anni in una zona a Nord di Aleppo a maggioranza curda, nelle stesse ore nelle quali l'esercito governativo assumeva il controllo della cittadina di Haffe, nella regione costiera di Latakia, popolata da sunniti e cristiani, ma circondata da villaggi alawiti. Parallelamente al rilancio francese in direzione di una possibilità almeno parziale di intervento armato Nazioni Unite - che Parigi ha poi ulteriormente corroborato annunciando la fornitura ai ribelli di mezzi di comunicazione -, gli Stati Uniti hanno accentuato la pressione su Mosca, accusata anche di fornire al regime siriano gli elicotteri militari utilizzati già più volte nella repressione: il ministro degli esteri russo Lavrov, in visita a Teheran, ha respinto ogni accusa, asserendo che Mosca avrebbe fornito a Damasco esclusivamente armamenti difensivi, confermando la propria opposizione ad ogni ipotesi di ricorso all'intervento armato in Siria e rigettando le accuse nel campo statunitense, con l'accusa a Washington di fornire armamenti ai ribelli siriani. Il capo della missione di osservatori delle Nazioni Unite accusava il 15 giugno sia i governativi che i ribelli di limitare il lavoro della UNSMIS a causa della escalation delle violenze: il giorno successivo le operazioni venivano sospese e gli osservatori militari si ritiravano nelle loro basi, disposti a riprendere il proprio lavoro solo quando le condizioni di sicurezza fossero migliorate. Il Consiglio nazionale siriano richiedeva intanto l’invio di una missione ONU più numerosa e armata, in grado di proseguire nella propria opera nonostante le violenze. Nell’incontro in margine al Vertice G20 di Los Cabos (Messico) del 18 e 19 giugno i presidenti russo e americano, in un clima assai più disteso rispetto alle relazioni bilaterali degli ultimi mesi, convenivano sull’opportunità di collaborare per contribuire a porre fine alle violenze in Siria e scongiurare lo spettro di una guerra civile totale, nonché permettere al popolo siriano di scegliere indipendentemente e democraticamente il proprio futuro: in pratica, tuttavia, ognuno è rimasto sulle sue posizioni, senza far registrare alcun progresso. Mentre continuava l’impasse della missione di osservatori disarmati delle Nazioni Unite, impossibilitati a svolgere il loro compito per l’escalation della violenza, si assisteva intanto a un notevole intensificarsi delle azioni armate dei ribelli contro le forze di sicurezza del regime siriano: il 20 giugno un convoglio che comprendeva operatori italiani dell’ANSA è stato colpito, probabilmente da una bomba posta al margine della strada, che ha provocato la morte di uno degli agenti siriani che accompagnavano il convoglio e il ferimento di altri tre. Si infittivano anche le voci di intense trattative per giungere a uno sblocco della situazione siriana attraverso l'esilio di Bashar al-Assad, e si verificava il 21 giugno il primo caso di defezione di un pilota militare siriano, il cui Mig-21 è atterrato in Giordania, ove veniva concesso al militare asilo politico.
Il 22 giugno la questione siriana si arricchiva di un nuovo elemento di grave tensione, quando un velivolo militare turco veniva abbattuto dalla contraerea siriana mentre si trovava in volo sul mare poco più a sud del confine turcosiriano, poiché avrebbe, secondo Damasco, violato lo spazio aereo nazionale. Una riunione d'urgenza veniva convocata ad Ankara da Erdogan, con la partecipazione del capo di stato maggiore, dei ministri dell'interno, degli esteri e della difesa, nonché del capo dei servizi segreti di Ankara. Il 23 giugno interveniva il presidente turco Abdullah Gul, dopo un contatto telefonico con Damasco, preannunciando un'indagine per comprendere se il velivolo turco avesse violato lo spazio aereo siriano: Gul affermava inoltre che la vicenda dell'abbattimento dell'aereo era di gravità tale da non poter in nessun caso essere ignorata. Il 24 giugno il ministro degli esteri turco Davutoglu, in un intervento in diretta televisiva, sosteneva che il velivolo si trovava nello spazio aereo internazionale – un possibile breve sconfinamento nello spazio aereo siriano non è stato escluso, ma si sarebbe verificato un quarto d'ora prima dell'abbattimento - , era disarmato e non tentava in alcun modo di nascondere la propria nazionalità. Inoltre, l'abbattimento sarebbe avvenuto senza alcun preavviso, e Davutoglu ha espresso scetticismo sulla dichiarazione siriana per la quale la contraerea di Damasco avrebbe ignorato trattarsi di un aereo della Turchia. Il governo di Ankara dichiarava dunque quello siriano un atto ostile, precisando peraltro di voler dare una risposta nei limiti del diritto internazionale. Dalla Siria veniva una secca replica, rivendicando l'abbattimento come atto di difesa della propria sovranità, e comunque perpetrato alla stregua di un incidente, e non con intenti aggressivi, verso un velivolo che comunque si sarebbe trovato nello spazio aereo siriano. I rapporti bilaterali tra Turchia e Siria venivano inaspriti anche dalla denuncia di Damasco, che in qualche modo potrebbe collegarsi all’abbattimento del velivolo turco, delle continue infiltrazioni di gruppi definiti terroristici dal confine settentrionale - ovvero dalla Turchia - a tale proposito si moltiplicavano le voci e le conferme di un’intensa attività della CIA nei pressi del confine siriano, con una sorta di smistamento degli armamenti che l'Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia avrebbero inviato ai ribelli siriani, anche per impedire con il loro controllo che finissero nelle mani di Al-Qaïda o di gruppi fondamentalisti sunniti siriani. Il governo turco chiedeva intanto alla NATO la convocazione di una riunione sull'abbattimento del proprio caccia da parte dei siriani: secondo la portavoce della NATO la Turchia avrebbe chiesto consultazioni sulla scorta dell'articolo 4 del Trattato istitutivo dell'Alleanza atlantica, che le prevede appunto qualora uno Stato membro ritenga di essere oggetto di una possibile minaccia alla sua sicurezza o indipendenza politica. La Turchia ha inoltre accompagnato l'iniziativa diplomatica con una nota di protesta inviata alla Siria. In riferimento all’abbattimento del jet militare turco da parte dei siriani, avvenuto il 22 giugno, le riunioni dei ministri degli esteri UE del 25 giugno e quella degli Ambasciatori NATO del giorno successivo esprimevano solidarietà alla Turchia, anche per il carattere equilibrato della sua reazione. Ai toni di crescente rabbia delle massime autorità turche la Siria – appoggiata da esperti russi – ribatteva di non credere alla versione turca del jet disarmato sconfinato per errore: si sarebbe trattato piuttosto di un tentativo di spiare le forze armate siriane a vantaggio dei ribelli, o addirittura di un test sulle difese antiaeree siriane a beneficio di possibili azioni della NATO. La Turchia iniziava frattanto a rafforzare il dispositivo militare sui 600 km. di frontiera con la Siria, preannunciando immediate reazioni in caso di violazioni di confine. Il 30 giugno, il 1° e il 2 luglio velivoli turchi F-16 si alzavano in volo a prevenire eventuali violazioni dello spazio aereo turco da parte di elicotteri siriani in avvicinamento alla frontiera comune. Il 3 luglio il presidente Assad, in un’intervista a un quotidiano turco, tentava di allentare la tensione esprimendo rincrescimento per l’abbattimento dell’aereo di Ankara e condoglianze alle famiglie dei due piloti - i cui corpi sono stati finalmente individuati il 4 luglio, giorno nel quale la pubblicazione della seconda parte dell’intervista ad Assad ha rinfocolato le tensioni, con accuse al premier turco Erdogan di ingerenza negli affari interni della Siria e di aperto sostegno ai gruppi “terroristi”. Peraltro il ritrovamento dei corpi dei due piloti e dei resti del jet turco abbattuto faceva emergere la maggior credibilità della tesi siriana, per la quale l'abbattimento sarebbe avvenuto effettivamente nelle acque territoriali della Siria, e la prova principale sarebbe stata l'assenza di tracce, sui rottami, dell’impatto di un missile - dunque l'aereo sarebbe stato colpito dal fuoco della contraerea a distanza ravvicinata. In tal senso Erdogan, che non aveva ricevuto se non espressioni di solidarietà a parole, iniziava a incassare anche le critiche della stampa nazionale, che constatava il sostanziale blocco dell'iniziativa di Ankara. Anche l'opposizione politica turca, soprattutto quella socialdemocratica, attaccava il governo denunciando i lati oscuri della vicenda e facendosi interprete dei sentimenti largamente pacifisti dell'opinione pubblica turca. Nuovo piano internazionale di transizione per la Siria. Attentato al ministro siriano della difesa a Damasco. Escalation delle vittime Il 30 giugno si era intanto svolta a Ginevra una Conferenza sulla Siria convocata da Kofi Annan dopo la constatazione del fallimento di fatto del proprio piano per la cessazione delle violenze nel paese mediorientale. Alla conferenza hanno preso parte USA, Regno Unito, Francia, Cina, Russia, Iraq, Qatar, Kuwait e Turchia, oltre ai segretari generali di ONU e Lega Araba e all’Alto rappresentante UE per la politica estera Catherine Ashton. La Conferenza approvava un piano di transizione imperniato sulla creazione di un organo esecutivo formato da esponenti dell’attuale governo di Damasco e da membri dell’opposizione. Il piano non trattava esplicitamente del destino politico del presidente Assad, e proprio su tale questione riemergevano dopo la Conferenza le divergenze tra chi (i paesi occidentali) riteneva che il piano implicasse la fine politica di Assad, e chi invece (la Russia), attenendosi alla lettera del documento, non ne prevedeva necessariamente le dimissioni. Tanto le opposizioni quanto il regime di Assad hanno per una volta convenuto nel definire la Conferenza di Ginevra come l’ennesimo fallimento, poiché non avrebbe fatto registrare alcun mutamento nelle posizioni dei principali attori internazionali. Nel crescente scetticismo sulle possibilità di una soluzione diplomatica del conflitto siriano, il regime promulgava il 2 luglio una nuova legge che prevede la pena di morte per chi a seguito di atti terroristici cagioni la menomazione o addirittura il decesso delle vittime. A fronte di tali inasprimenti, le opposizioni proseguivano nel mostrare profonde divisioni, con il boicottaggio della riunione del 3 luglio al Cairo – alla quale hanno partecipato il Consiglio nazionale siriano, la Turchia e la Lega Araba – da parte dell’Esercito siriano libero, che opera all’interno del paese. Uno dei leader curdo-siriani si è spinto ad accusare il Cns di vole instaurare un regime islamico. Il 6 luglio si svolgeva a Parigi l’ennesima Conferenza degli amici della Siria, con la massiccia presenza di ben 107 delegati di altrettanti Stati – ma con l’assenza di Russia e Cina -, dalla quale risuonava un vigoroso monito ad Assad perché lasciasse il potere. In particolare, il segretario di Stato USA Hillary Clinton ha propugnato con forza la necessità di adottare una nuova risoluzione in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU, nella quale si definissero con chiarezza le conseguenze per il regime siriano se acesse continuato a non rispettare il piano Annan, conseguenze che dovrebbero attingere anche le misure previste dal capitolo VII della Carta dell’ONU (che, si ricorda, prevede anche come extrema ratio interventi armati). Tra i punti della dichiarazione finale della Conferenza spiccavano il rifiuto di ogni impunità per i crimini fino ad allora commessi, l’effettiva applicazione delle sanzioni economico-finanziarie e un deciso rafforzamento dell’appoggio alle opposizioni al regime di Assad. La Conferenza si è svolta mentre era in volo verso Parigi il generale Manaf Tlass, comandante di una delle unità della Guardia repubblicana e vicinissimo ad Assad, come suo padre lo era stato nei confronti del padre del presidente siriano, Hafez Assad: la defezione di Tlass è stata vista unanimemente come un duro colpo alla compattezza del regime siriano. Il 7 luglio, a più riprese, razzi e proiettili di mortaio siriano raggiungevano il nord del Libano, uccidendo cinque persone, tra cui due profughi siriani. Il 10 luglio altre bombe siriane colpivano il territorio libanese, dopo che nella notte una sparatoria aveva coinvolto presso il confine le forze di sicurezza di Damasco e miliziani presumibilmente appartenenti alle opposizioni armate siriane. Una nuova iniziativa diplomatica di Kofi Annan si sviluppava il 9 e 10 luglio, rispettivamente con incontri a Damasco con il presidente Assad e a Teheran con la dirigenza iraniana, che l'ex segretario generale dell'ONU avrebbe voluto senz'altro coinvolgere nei tentativi di soluzione della grave crisi siriana - al proposito, la posizione di Teheran sembrava relativamente distaccata rispetto al futuro politico di Assad, rimandando a libere elezioni dei siriani nel 2014, in attesa delle quali tuttavia gli Stati stranieri avrebbero dovuto astenersi da interferenze nella grave situazione di scontro sul terreno interno. Kofi Annan, che aveva poi concluso il suo tour diplomatico con un incontro a Baghdad con il premier iracheno al-Maliki, faceva cenno a un “nuovo approccio” concordato con Assad, e volto a risolvere dapprima le situazioni di più grave conflitto in vari distretti siriani. Va comunque rilevato che tanto le opposizioni al regime di Assad quanto gli Stati Uniti rifiutavano con forza la prospettiva di un coinvolgimento dell'Iran nella questione della Siria, il cui esercito intanto, a partire dal 7 luglio, dava dimostrazione di forza con lo svolgimento di esercitazioni militari su larga scala.
La situazione siriana si è mantenuta così a lungo sullo sfondo di un sostanziale stallo diplomatico, con la Russia sempre impegnata a difendere la posizione del presidente Assad, perlomeno fino allo svolgimento di elezioni politiche - difficilmente ipotizzabili, però, nello scenario attuale -, mentre i paesi occidentali tentavano di accrescere le pressioni sul regime siriano, senza trovare tuttavia gli strumenti necessari. Infatti, nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si sono confrontate due diverse bozze di risoluzione, quella russa, che si limitava ad auspicare il rinnovo trimestrale del mandato della missione di osservatori dell'ONU, e quella dei paesi occidentali, che intimava al regime di Assad di cessare entro dieci giorni di utilizzare armi pesanti contro le città maggiormente coinvolte nella ribellione, a pena dell'imposizione immediata di sanzioni economiche e diplomatiche. Il 12 luglio vi sarebbe stato un nuovo massacro nella città di Tremseh, nella provincia di Hama: secondo lo stesso Kofi Annan le forze di sicurezza siriane avrebbero utilizzato armi pesanti, carri armati ed elicotteri, violando impegni contratti con il piano di pace da lui prediposto. Il bilancio della strage sarebbe stato almeno di 150 morti. Di fronte alle veementi proteste internazionali, alle quali si univano anche il Segretario di Stato USA Hillary Clinton e il Segretario generale dell'ONU, il regime siriano, servendosi anche di un rapporto degli osservatori dell'ONU giunti il 14 luglio a Tremseh, sosteneva che nella cittadina l'attacco sarebbe stato concentrato contro cinque edifici usati come base da “terroristi”, e che il numero dei morti sarebbe stato di gran lunga inferiore a quello riportato, con l'uccisione di 37 ribelli e solo due civili. Inoltre, a Tremseh le forze siriane non avrebbero utilizzato nessun tipo di arma pesante. Intanto il 15 luglio i combattimenti tra forze governative e ribelli raggiungevano i sobborghi della capitale, ancora immuni dalle violenze, provocando la chiusura della strada che collega la capitale con l'aeroporto internazionale. Il 16 luglio i combattimenti divampavano nel punto più vicino al centro di Damasco mai raggiunto dall'inizio della ribellione in Siria, il quartiere di al Midan, mentre il ministro degli esteri russo Lavrov denunciava come irrealistiche le pressioni occidentali su Mosca per convincerla ad accettare la dipartita di Assad - secondo Lavrov ricattando la Russia con la minaccia di non prorogare il mandato della missione degli osservatori dell'ONU - poiché il presidente siriano sarebbe sostenuto in primis da una parte cospicua della popolazione siriana stessa. Sul fronte delle pressioni diplomatiche va intanto segnalato che il 16 luglio il Marocco espelleva l'ambasciatore siriano, ricevendone come ritorsione l’immediata dichiarazione di persona non grata nei confronti dell'ambasciatore marocchino. Il 17, e soprattutto il 18 luglio, la situazione siriana registrava un’ulteriore escalation, con l’infuriare dei combattimenti nella capitale, che si avvicinavano sempre più al centro della città, mentre diversi quartieri subivano i bombardamenti delle forze governative. Sintomaticamente, anche il governo iracheno riteneva di dover invitare i propri cittadini presenti in Siria a rientrare in patria, dopo la morte di 23 connazionali coinvolti negli scontri dei giorni passati - tra le vittime irachene anche due giornalisti che seguivano gli eventi siriani sul terreno. Cresceva inoltre l’allarme sollevato già alcuni giorni prima, quando informazioni di intelligence avevano evidenziato come il regime siriano stesse spostando una frazione del notevole arsenale di armi chimiche in suo possesso: oltre all’attenzione statunitense, anche Israele iniziava serrate consultazioni interne tra i vertici politici e militari per studiare l'evoluzione della situazione, con particolare riguardo, oltre che alle armi non convenzionali in possesso dei siriani, anche all'eventualità che le alture del Golan - tuttora occupate dagli israeliani - possano divenire il terreno di un esodo di massa dalla Siria, che porrebbe a diretto contatto con le truppe israeliane masse di profughi disarmati in marcia per lasciare il paese. Tutto ciò nello scenario già paventato da Israele da tempo, per il quale lo sfaldamento eventuale del regime siriano, con conseguente liberazione di un gran numero di elementi sunniti in precedenza repressi, potrebbe agevolare le attività terroristiche di Al-Qaida contro lo Stato israeliano. Il 18 luglio la sede della sicurezza nazionale siriana, mentre era in corso una riunione ad alto livello tra ministri e funzionari, veniva colpita da un attentato la cui dinamica è rimasta poco chiara, anche se la rivendicazione è venuta poco dopo sia dall’Esercito libero siriano che dal gruppo Liwa al Islam, e che provocava la morte del ministro della Difesa Daud Rajha – l’esponente cristiano più in alto nel regime, del generale Hassan Turkmani e soprattutto di Assef Shawkat, cognato del presidente Assad e direttamente impegnato nella direzione della repressione. Il successo dell'attentato è parso corroborare le aspettative degli oppositori, già palesate anche dai Fratelli musulmani, di trovarsi in un momento di svolta nella crisi siriana, della quale hanno dichiarato di attendersi una fine non lontana: in tal senso le dichiarazioni di Abdulbaset Sieda, presidente del Consiglio nazionale siriano. Intanto la Russia, che ha duramente condannato l’attentato, ha continuato a rifiutare l’ipotesi di una nuova risoluzione ONU sulla Siria, poiché essa sarebbe servita a sostenere quella che per Mosca è una rivoluzione in corso. Mentre Kofi Annan chiedeva un differimento del voto in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, La Lega Araba onvocava a Doha per il 22 luglio una riunione straordinaria dei ministri degli Esteri dell’Organizzazione. Sulla questione delle armi chimiche va segnalato che gli Stati Uniti hanno accresciuto la propria attenzione, soprattutto allarmati dall'ipotesi per cui, vistosi alle strette, il regime di Assad potrebbe addirittura usarne una parte contro l'opposizione e i civili, per non parlare dell'ipotesi funesta per la quale l'arsenale non convenzionale siriano possa finire nelle mani del terrorismo internazionale. Tuttavia, Il portavoce del Dipartimento di Stato sottolineava il 19 luglio che non vi erano al momento indizi di una perdita di controllo del regime siriano su tali armamenti, aggiungendo anche che Damasco era comunque ritenuta responsabile della sicurezza delle proprie armi non convenzionali, e il mancato rispetto dei relativi obblighi sarebbe stato motivo di incriminazione a livello internazionale dei responsabili. In ogni caso, secondo il New York Times, sarebbero stati avviati contatti tra israeliani americani su possibili iniziative comuni nei confronti degli armamenti non convenzionali siriani. Il 19 luglio vi sono stati comunque anche segnali di ripresa del regime siriano, con un’apparizione televisiva del presidente Assad impegnato a ricevere il nuovo ministro della difesa, contraddicendo le voci di una sua fuga nella città costiera di Latakia. Per la prima volta sono apparsi anche i carri armati governativi a Damasco, ponendo le premesse di una progressiva ripresa di controllo della situazione nei quartieri semicentrali. Intanto la Russia e la Cina hanno nuovamente posto il veto a una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU di iniziativa occidentale, che prevedeva sanzioni contro il regime e faceva riferimento anche al capitolo VII della Carta dell'ONU. Non è dunque stato sufficiente differire il voto sulla risoluzione, come era stato chiesto da Kofi Annan: l'ambasciatore russo presso le Nazioni Unite ha sostenuto che la bozza in discussione avrebbe aperto la porta ad un intervento militare, e minacciava sanzioni solo nei confronti del governo di Damasco, e non degli oppositori. Anche il rappresentante cinese ha rilevato come il documento fosse sbilanciato e suscettibile di un ulteriore aggravamento della situazione. Ancora una volta, l'atteggiamento russo cinese ha destato le aspre critiche dei paesi occidentali. Nella difficile situazione siriana emergeva intanto progressivamente la tendenza più o meno forte delle minoranze etniche e religiose a non vedere un futuro e a lasciare preferenzialmente il paese: non va infatti dimenticato che il regime siriano, anche al vertice, ha visto per decenni esponenti di una minoranza, quella degli alawiti, in posizione preminente, e può caratterizzarsi proprio come un regime coalizionale di minoranze, che non a caso sotto il dominio degli Assad hanno sempre goduto di un elevato livello di garanzie. Nel nuovo scenario, in cui si prevede l'arrivo al potere della maggioranza sunnita (circa il 70% dei siriani), le minoranze, oltre a temere vendette per il precedente status privilegiato, vedono un oggettivo restringimento degli spazi culturali e religiosi a propria disposizione. Il 19 luglio era anche il giorno dell'incontro a Roma del Ministro degli esteri Giulio Terzi con il presidente del Consiglio nazionale siriano Sieda, a margine del quale il Ministro si diceva preoccupato per lo stallo della risoluzione nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, che avrebbe potuto dare al regime siriano la sensazione di essere ancora più indisturbato nel continuare con le violenze. Secondo il Ministro degli esteri italiano era comunque necessario reagire alla situazione, riattivando al massimo grado le possibilità insite nell'azione del Gruppo di amici del popolo siriano, per esercitare ulteriori pressioni sul regime e un potenziamento delle iniziative umanitarie al momento carenti. Il Ministro Terzi ha infatti ricordato che vi erano ormai in Siria 2 milioni di rifugiati interni, e, oltre alle circa 20.000 vittime, 70.000 feriti, 170.000 arrestati e 70.000 scomparsi. Il 19 luglio si confermava giornata cruciale della crisi siriana anche sul piano delle vittime: infatti l'Osservatorio nazionale per i diritti dell'uomo in Siria ha reso noto che vi sono stati 248 morti, il record dall'inizio della crisi. Il 20 luglio il Consiglio di sicurezza dell'ONU approvava all'unanimità una risoluzione che si limitava a prolungare di 30 giorni il mandato della missione di osservatori in Siria. Va rilevato che la Russia aveva minacciato di opporsi anche a questa bozza di risoluzione, per la condizionalità che essa poneva al regime di Damasco, nel senso di specificare il divieto di ulteriore proroga del mandato della missione di osservatori qualora il regime non avesse cessato di utilizzare armi pesanti contro i ribelli e non avesse creato una situazione più sicura per l'espletamento dei compiti degli osservatori. L'approvazione del documento non metteva la sordina alle polemiche tra Russia e paesi occidentali: gli Stati Uniti hanno autorevolmente sostenuto di aver ormai intenzione di agire al di fuori del quadro delle Nazioni Unite, e la Russia ha ribattuto definendo preoccupante ma anche inefficace questo tipo di iniziative. A Damasco intanto proseguiva la controffensiva dell'esercito per respingere le infiltrazioni dei ribelli, mentre per la prima volta si accendevano scontri nella seconda città siriana, Aleppo. Per quanto riguarda la situazione dei profughi, risultava che tra 19 e 20 luglio circa 30.000 siriani si fossero riversati in Libano: ben più imponente il flusso di ritorno dei 400.000 iracheni circa che avevano a suo tempo cercato riparo in Siria, e che ora ritenevano preferibile muoversi nella direzione opposta. Il governo iracheno, tra l'altro, iniziava a rafforzare il dispositivo di sicurezza nella regione di Anbar confinante con la Siria, inviando rinforzi alla frontiera, anche per prevenire iniziative di Al-Qaida o dei ribelli siriani, che il 19 luglio si erano impadroniti di un posto di confine siriano nella zona. Per quanto concerne la situazione degli scontri, nella capitale appariva come le forze governative avessero ripreso progressivamente il controllo dei quartieri prossimi al centro, mentre anche nella giornata del 20 luglio vi sono state ben 145 vittime – tra di esse va annoverata la morte di un quarto esponente degli apparati repressivi per le ferite riportate nell’attentato del 18 luglio, segnatamente il capo degli apparati di sicurezza Hiktiyar. Mentre appariva sempre più chiaramente che le forze governative avevano ripreso il controllo di buona parte della capitale, gli scontri proseguivano con violenza ad Aleppo. Proseguiva poi con successo la strategia dei ribelli di conquistare alcuni posti di frontiera: nella giornata del 21 luglio ne veniva conquistato uno al confine tra Iraq e Siria, mentre due posti di frontiera tra Siria e Turchia erano già caduti nelle mani degli oppositori. Risultava anche che altri due generali avevano abbandonato il regime siriano ed erano fuggiti in Turchia nella notte tra 20 e 21 luglio, unitamente a uno stuolo di altri ufficiali. Il 22 luglio venivano confermati i progressi militari del regime nella capitale, giacché i bombardamenti cominciavano ad interessare oramai i sobborghi, ma anche la continuazione degli scontri nel centro di Aleppo. Bombardamenti sarebbero stati effettuati anche su Homs e Dayr az Zor. Un altro generale siriano avrebbe disertato nella notte tra 21 al 22 luglio, portando a 25 il numero dei suoi pari grado riparati in Turchia, secondo lo stesso ministero degli esteri di Ankara. Intanto la Farnesina ripeteva l'invito ai connazionali presenti in Siria a lasciare il paese. Fonti dei ribelli in Turchia asserivano poi che gli oppositori avevano conquistato un ulteriore posto di frontiera tra Siria e Turchia, situato a nord di Aleppo: la notizia sarebbe stata confermata da diplomatici turchi a Istanbul. Nella giornata del 22 luglio il nuovo primo ministro siriano Hijab si presentava in Parlamento per illustrare il programma di governo, al centro del quale ribadiva esservi la sicurezza. Hijab ha espressamente reso omaggio alle forze armate, impegnate a suo dire nella resistenza a piani ostili. Per quanto riguarda il ruolo della Turchia nella crisi siriana, va rilevato il rafforzamento del dispositivo militare lungo la frontiera comune, con l'invio di batterie di missili terra-aria e veicoli da trasporto truppe nel sud-est della Turchia. Il 23 luglio i ministri degli esteri dell'Unione europea, riuniti a Bruxelles, hanno adottato il 17° pacchetto di sanzioni nei confronti del regime siriano, con effetto dal 25 luglio: in particolare, è stato sancito per gli Stati membri l'obbligo di rafforzare i controlli sulle navi e sugli aerei diretti in Siria, al fine di prevenire la fornitura di armamenti o di altro materiale utilizzabile dalle forze di sicurezza contro la popolazione. Anche gli aspetti umanitari, sia nei confronti della popolazione sfollata in territorio siriano che della prevedibile crescente ondata di profughi nei paesi vicini, sono stati al centro della riunione di Bruxelles, contemporaneamente alla quale la Commissione europea ha annunciato un ulteriore stanziamento di 20 milioni di euro. Per quanto concerne le armi chimiche vi è stata il 23 luglio per la prima volta l'ammissione di Damasco di detenere tali armamenti: il portavoce del ministero degli esteri ha tuttavia sottolineato come la Siria potrebbe servirsi delle armi chimiche solo in caso di aggressione dall'esterno, e non mai contro i civili e in territorio siriano. Per quanto riguarda i combattimenti, mentre anche nella capitale sono rimaste sacche di resistenza dei ribelli, gli scontri più violenti si sono spostati ad Aleppo, dove anche nella giornata successiva, il 24 luglio, sono state fatte affluire ingenti forze dell'esercito. Il generale Tlass, che alcuni giorni prima era riparato in Francia in polemica con il regime del suo fraterno amico Assad, ha rivolto un appello ai militari siriani a defezionare, per non rendersi complici di veri e propri atti criminali di un regime corrotto. Il 25 luglio la televisione turca Ntv ha annunciato la chiusura dei posti di confine con la Siria, dopo che nei giorni precedenti erano stati oggetto di attacco da parte dei ribelli siriani, che ne avevano conquistati tre. Il viceministro degli esteri russo Gatilov, dal canto suo, ha reso noto che la Russia avrebbe ricevuto forti rassicurazioni dalla Siria sul pieno controllo dell'arsenale chimico da parte delle forze del regime. Va rilevato come, dopo la proroga di un mese del mandato della missione di osservatori dell’ONU, e dopo le successive dimissioni del capo della missione medesima, circa la metà degli osservatori hanno lasciato la Siria e di fatto abbandonato la missione delle Nazioni Unite. Va segnalato come il 26 luglio rappresentanti di 11 gruppi dell'opposizione interna siriana hanno firmato a Roma, con il patrocinio della Comunità di S. Egidio, un appello per una soluzione pacifica della crisi siriana affidata alla Comunità internazionale e non all'uso delle armi. In tal senso le Nazioni Unite, quale unico responsabile degli aiuti umanitari, dovrebbero intervenire per il completo ritiro degli apparati militari e un vero cessate il fuoco. L'appello di Roma non esclude nemmeno la possibilità che esponenti del regime siriano non macchiatisi di crimini possano essere considerati interlocutori nel processo di soluzione, del quale però non dovrà far parte il presidente Assad. Da notare la critica che gli esponenti convenuti a Roma hanno riservato al Consiglio nazionale siriano, il quale, composto da siriani espatriati, non avrebbe diritto a chiedere interventi armati esterni dei quali il popolo siriano sarebbe la prima vittima. Il tragico scenario siriano, nel quale aumentavano le defezioni di importanti esponenti del regime, tra i quali deputati e diplomatici, cominciava a preoccupare seriamente per le sue conseguenze su scala regionale la Turchia - che vede un grave rischio nel prevalere nel nord della Siria di milizie curde, e perciò ha preannunciato di riservarsi la possibilità di eventuali inseguimenti in territorio siriano- e Israele, che si è preparata a fronteggiare massicci esodi, o addirittura attacchi, dalla parte delle alture del Golan. Frattanto, confermando alcune voci del giorno precedente, è divenuto evidente il 27 luglio l'assedio che le forze corazzate del regime avevano posto attorno alla città di Aleppo, nella quale le postazioni dei ribelli sono state colpite da ripetute incursioni di elicotteri. Particolarmente drammatica si è subito rivelata la situazione dei civili nella seconda città della Siria, per i quali il Comitato internazionale della Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa siriana hanno allestito rifugi di fortuna in diverse scuole, mentre proseguiva l'esodo di numerosi siriani verso il Libano, la Turchia e la Giordania. Intanto, mentre il regime annunciava la creazione di un Tribunale speciale per l'antiterrorismo, per la prima volta si verificava uno scontro tra le forze armate siriane e quelle giordane al confine tra i due paesi, dopo che i siriani avevano a quanto pare occupato una postazione di avvistamento in territorio giordano. Il 28 luglio si è pienamente scatenata l'offensiva delle forze del regime su Aleppo, con massicci bombardamenti da terra e dal cielo, aggravando ulteriormente le condizioni dei civili, in gran parte intrappolati nei loro quartieri. Il ministro degli esteri russo Lavrov, d'altra parte, ha sostenuto essere irrealistica l’aspettativa che il governo siriano non reagisse all'occupazione delle grandi città da parte dei ribelli - al proposito, infatti, i combattimenti sono proseguiti anche nella capitale e nei sobborghi di essa. Il 29 e il 30 luglio è proseguita la battaglia nella città di Aleppo, con dichiarazioni di opposto tenore delle parti in lotta, ciascuna delle quali ha vantato successi, a scopo più che altro propagandistico. Sul fronte diplomatico non si sono registrate evoluzioni nella posizione russa in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU, mentre il regime ha dovuto prendere atto delle defezioni dell'incaricato d'affari siriano a Londra e del vicecapo della polizia di Latakia, città da cui proviene il clan alawita degli Assad. Oltre ad Aleppo, sono infuriati scontri a Homs, come riferito dal nuovo capo della missione di osservatori dell’ONU Babacar Gaye, che il 29 luglio è stato fatto segno con il suo team di un attacco, che non ha fortunatamente provocato vittime né feriti. Si sono inoltre intensificati gli scontri tra le forze del regime e i ribelli in prossimità del confine turco (regione di Idlib), accrescendo sensibilmente le preoccupazioni di Ankara, che ha rafforzato il dispositivo militare al confine con la Siria con ulteriori truppe e batterie missilistiche, e ha effettuato il 1° agosto manovre di mezzi corazzati. La stessa giornata vedeva la prosecuzione dei combattimenti ad Aleppo per il quinto giorno consecutivo, mentre nel complesso perdevano la vita in tutta la Siria quasi 120 persone. Le opposizioni tornavano a mostrare tutte le loro divisioni, che passavano soprattutto per la discriminante di fondo dell'essere all'interno della Siria o dell'agire all'estero. In particolare, gli espatriati vedevano una prematura volontà di spartizione del potere all’interno della Siria, come avrebbe dimostrato la proposta di una fazione vicina all'Arabia Saudita, che aveva ipotizzato la possibilità di dar vita a un governo di transizione. Il 2 agosto 2012 la situazione apparentemente senza sbocco della Siria induceva Kofi Annan ad annunciare le sue dimissioni dall’incarico di inviato speciale delle Nazioni Unite e della Lega Araba per il conflitto in Siria: l'ex segretario generale dell'ONU rilevava l'ostinazione del governo siriano a non applicare nella sua intierezza il piano in sei punti a suo tempo sottoscritto, ma nello stesso tempo stigmatizzava l'escalation in senso militare dell'azione delle opposizioni. Questi elementi si inserivano poi, secondo Kofi Annan, nello stallo nell’iniziativa della Comunità internazionale, in ragione delle profonde divisioni all'interno di essa: tali divisioni erano del resto confermate persino nella sede non vincolante dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove subiva un rinvio il voto su una bozza di risoluzione della crisi siriana presentata dai paesi arabi. Il 2 agosto era anche la giornata di un tentativo di attacco dei ribelli all'aeroporto militare sito a nord di Aleppo, servendosi di un carro armato con ogni probabilità sottratto alle forze del regime: l'attacco era tuttavia respinto dalla pronta reazione delle forze lealiste. Il ministero degli esteri siriano criticava intanto aspramente i servizi di sicurezza turchi per l'appoggio che fornirebbero alle azioni dei ribelli, cui sarebbe consentito di partire dal territorio turco per compiere attacchi in Siria, e verrebbe assicurato appoggio logistico. In effetti, le affermazioni del governo siriano sembravano corroborate da più voci, compresa quella degli Stati Uniti, che hanno confermato lo stanziamento di 25 milioni di dollari in aiuti di carattere non letale ai rivoltosi siriani. Mentre la battaglia in corso ad Aleppo registrava anche l'interruzione delle comunicazioni telefoniche e telematiche per quasi 24 ore, l'esercito siriano tornava a bombardare pesantemente il territorio giordano, aumentando i rischi di estensione regionale del conflitto, al di là della motivazione di colpire elementi della ribellione rifugiatisi in Giordania. Il 3 agosto l’Assemblea generale dell'ONU poteva finalmente approvare la risoluzione sulla Siria, passata con una larga maggioranza, nella quale si sollecitava la transizione politica nel paese, ma, soprattutto, si deplorava in modo del tutto irrituale lo stallo in seno al Consiglio di sicurezza a fronte dell’escalation di violenza nel paese. Nelle stesse ore i ribelli, che significativamente avevano cominciato a esercitare un servizio di protezione delle proteste ripetutesi in tutta la Siria in occasione della preghiera islamica del venerdì, pronunciavano una forte condanna delle esecuzioni sommarie di lealisti emerse nei giorni precedenti, diffondendo anche un rudimentale codice etico per il rispetto dei diritti dei prigionieri e la disciplina del comportamento degli appartenenti alla ribellione armata, in vista anche di una riconsegna completa delle armi alle future autorità legittime della Siria. La maggior parte delle vittime nella giornata del 3 agosto si sono avute a Hama, dove avrebbero perso la vita sotto i bombardamenti dell'artiglieria governativa quasi 70 persone. Frattanto il perdurante sostegno della Russia al regime di Assad era confermato dal raggiungimento a Mosca di un accordo per la fornitura di greggio alla Siria. Il 4 agosto, nonostante le affermazioni dei giorni precedenti da parte delle forze governative, nuovi combattimenti di grande intensità interessavano alcuni quartieri della capitale siriana, non troppo distanti dai palazzi del potere. Ad Aleppo intanto i ribelli riuscivano a prendere per qualche ora il controllo dell'edificio dove opera la televisione di Stato, per essere poi nelle ore successive respinti: grande preoccupazione ha destato l'avvicinarsi dei combattimenti alla cittadella antica di Aleppo, dichiarata dall'UNESCO patrimonio culturale dell'umanità. L'Iran è stato frattanto nuovamente coinvolto nel conflitto siriano, dopo la vicenda di alcuni mesi prima che aveva visto il rapimento e la successiva liberazione di una decina di iraniani a Homs, per la mediazione decisiva della Turchia: infatti 48 pellegrini sciiti iraniani venivano catturati da bande di ribelli sulla strada tra Damasco e l'aeroporto internazionale, che oltretutto è una delle arterie più importanti per il regime siriano. Il giorno successivo, il 5 agosto, emergeva che tra i pellegrini iraniani rapiti vi sarebbero stati anche alcuni pasdaran. Il 6 agosto vi è stata la clamorosa defezione del neo premier del regime siriano, Riad Hijab, che tramite il suo portavoce ha dichiarato alla tv panaraba al-Jazira di denunciare il genocidio collettivo commesso dal regime di Assad. Hijab ha sostenuto di essere stato sin dall'inizio dalla parte della ribellione, ma di non aver potuto disertare perché sotto minaccia di morte, anche nei confronti dei propri familiari. La defezione di Hijab ha avuto sicuramente un alto valore simbolico, come segno ulteriore della disgregazione del regime siriano, ma scarso impatto istituzionale, poiché l'ordinamento peculiare della Siria vede per il capo del governo e per il Parlamento un ruolo meramente rappresentativo, con il potere reale saldamente nelle mani del rais Assad e della sua cerchia di uomini fidati. Il 7 agosto l’alto rappresentante della Guida Suprema iraniana Jalili, incontrando a Damasco il presidente Assad, ribadiva pienamente il sostegno della Repubblica islamica al regime siriano, impegnato secondo gli iraniani in uno scontro tra i sostenitori e gli avversari dell'asse della resistenza - con ciò intendendo il fronte antisraeliano nel Medio Oriente: la Siria, secondo l'Iran, è un perno essenziale di tale asse, cui Teheran non farà mai mancare il proprio sostegno. Intanto l'osservatorio nazionale dei diritti umani in Siria, per una volta all'unisono con l'agenzia ufficiale Sana, denunciava come grave crimine l'uccisione di 16 operai a Homs, la maggior parte dei quali alawiti, che sarebbe stata perpetrata da ribelli non controllati dall’Esercito libero siriano. Oltre a ribadire il sostegno alla Siria, tuttavia, la diplomazia iraniana, nella persona del ministro degli esteri Salehi – recatosi ad Ankara – si è impegnata nei confronti della Turchia per ottenere la liberazione dei pellegrini iraniani catturati nei giorni precedenti. Oltre alla richiesta di interessamento, tuttavia, la Turchia si è vista anche investire da minacce del capo di stato maggiore iraniano, per il quale in Turchia potrebbe spostarsi il prossimo teatro di violenze nella regione, proprio per il sostegno di Ankara alle opposizioni siriane. L’8 agosto Teheran ha ammesso comunque la presenza di alcune guardie rivoluzionarie in pensione nel gruppo dei pellegrini sequestrati in Siria, negando tuttavia ogni motivazione extrareligiosa del loro pellegrinaggio. In una giornata in cui è stata documentata l’uccisione di non meno di 91 persone, tra cui 12 donne e 10 bambini, è stato anche diramato il tragico bilancio sulle vittime del conflitto siriano nel mese di luglio: in una carneficina che ha raggiunto l'apice a un anno e mezzo dall'inizio delle manifestazioni contro il regime di Assad, sarebbero morte in luglio 3.643 persone, con una media di 121 al giorno, e tra queste vi sarebbero ben 274 bambini e 322 donne. Il 9 agosto infuriava ancora la battaglia ad Aleppo, con le forze governative in avanzata, senza peraltro riuscire a piegare in via definitiva il fronte dei ribelli. Intanto a Damasco veniva nominato il nuovo primo ministro, nella persona del ministro della sanità Wael Halqi. Sono cresciuti i segnali di una possibile estensione del conflitto siriano a livello regionale: infatti, la Turchia si spingeva ad accusare Damasco di appoggiare l'offensiva dei ribelli separatisti curdi del PKK, che in pochi giorni, a partire dalla fine di luglio, aveva provocato nel Kurdistan turco quasi 150 morti. In tal senso il ministro degli esteri turco accusava direttamente la Siria di armare il PKK, e il premier di Ankara Erdogan minacciava di colpire i separatisti curdo-turchi anche in territorio siriano. D'altro canto, la Turchia riceveva a sua volta accuse siriane di sostenere e armare i ribelli in lotta contro il regime di Assad, e nel contempo vedeva complicarsi ulteriormente i rapporti con Teheran, che sospendeva l'esenzione dei visti per l'ingresso dei cittadini turchi in Iran. In tal senso, nei colloqui di Istanbul dell’11 agosto, il premier turco Erdogan e il segretario di Stato USA Hillary Clinton concordavano su un più stretto coordinamento operativo, in previsione di un peggioramento dello scenario. Lo stesso Iran si rendeva protagonista sul piano diplomatico, attraverso l’organizzazione di una Conferenza consultiva sulla Siria, con la partecipazione di una trentina di paesi non schierati con il fronte occidentale anti Assad. La Conferenza lanciava un appello al dialogo nazionale tra il governo di Damasco e le opposizioni, nonché alla fine delle violenze in Siria, ma anche un avvertimento a non mettere in atto alcun tipo di intervento militare nel paese storicamente alleato dell'Iran. Il 9 agosto vi è stato anche il secondo sbarco di profughi siriani in Calabria, al largo di Crotone, con l'arrivo di 108 persone, dopo le 27 già arrivate il 4 agosto nella Calabria meridionale. Il 12 agosto, mentre ristagnava la battaglia ad Aleppo, si spargeva la notizia dell’uccisione, il giorno precedente, di due giornalisti che lavoravano per la tv pubblica e per l’agenzia ufficiale Sana, mentre il 10 era scomparsa una troupe televisiva filogovernativa – il cui cameraman Hatem Yahiya è stato ucciso il 13 agosto. Il conflitto siriano è divenuto intanto teatro di ulteriori atrocità, per lo più perpetrate proprio dai ribelli e documentate da molteplici fonti di informazione, tanto che gli stessi ambienti dell’opposizione al regime di Assad hanno reagito con sdegno alle brutalità perpetrate da alcune frange dei ribelli - tra i quali sembrava crescere progressivamentela la componente jihadista non siriana -; lo stesso presidente dell'osservatorio siriano dei diritti umani ha parlato di atrocità, e il comando dell'Esercito libero siriano si è dissociato da tali atti. Il 13 agosto è stato anche abbattuto per la prima volta un Mig siriano, a quanto pare grazie all'utilizzazione da parte dei ribelli di un mitragliatore antiaereo sottratto alle forze di sicurezza del regime – il quale ha ricevuto un altro colpo quando il proprio rappresentante presso il Consiglio ONU dei diritti umani ha annunciato a Ginevra la propria defezione, per unirsi al gruppo dissidente di Parigi denominato Raggruppamento democratico. Il 15 agosto è stato pubblicato un rapporto della Commissione internazionale indipendente delle Nazioni Unite, stabilita su mandato del Consiglio ONU per i diritti umani, al fine di investigare sulle violazioni e gli abusi commessi nel corso della crisi siriana. Il rapporto attesta la commissione di crimini di guerra e crimini contro l'umanità su indicazione e con il coinvolgimento dei più alti livelli di governo e delle forze di sicurezza siriani. In particolare, la Commissione ha accertato omicidi, esecuzioni extragiudiziali e torture, nonché gravi violazioni dei diritti umani quali uccisioni illegali, attacchi contro i civili e atti di violenza sessuale. La Commissione ha rilevato altresì come crimini di guerra, in particolare assassinii e torture, siano stati compiuti anche dagli oppositori del regime siriano, ma non della stessa efferatezza, né con la stessa frequenza. Il rapporto mette a fuoco in modo ben preciso il modus operandidelle forze del regime siriano nel portare a termine i massacri, perpetrati dai militari con l'aiuto delle milizie Shabbiha, dapprima attraverso massicci bombardamenti, e poi andando a stanare casa per casa i nemici del regime - compito quest'ultimo nel quale si sono distinti particolarmente proprio i miliziani, accanitisi con ferocia sugli oppositori catturati, ma anche spesso su civili innocenti. Il 15 agosto è stato anche il giorno in cui l’Organizzazione per la cooperazione islamica – la ex Organizzazione della Conferenza islamica – ha deciso di sospendere la rappresentanza siriana, e nel quale è stata resa nota l’ennesima strage, con il ritrovamento di 60 cadaveri con le mani legate in una discarica nel sobborgo di Qatana della capitale siriana. La fine della missione di osservatori dell’ONU. Il 16 agosto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso di porre fine in via definitiva alla missione degli osservatori in territorio siriano, ordinando il ritiro degli ultimi berretti blu. Nella stessa riunione il Consiglio di sicurezza ha scelto il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi in sostituzione di Kofi Annan, dimessosi dal ruolo di inviato speciale della Lega Araba e delle Nazioni Unite per la Siria. In una giornata che ha visto altre 179 vittime certificate dagli attivisti siriani - particolarmente raccapricciante quanto constatato da Human Rights Watch nella cittadina settentrionale di Azaaz, ove si sono registrati almeno 40 morti, tra cui molte donne e bambini, colpiti dall'aviazione governativa -, il regime ha dato luogo a un ulteriore rimpasto governativo, sostituendo i ministri dell'industria e della giustizia. Gli oppositori hanno rilevato che probabilmente i due ministri avevano tentato di disertare, come già aveva fatto l'ex premier Hijab. Frattanto in Libano il clan Miqdad - fiancheggiatore del movimento sciita Hezbollah -, un esponente del quale era stato catturato dai ribelli siriani nei pressi di Damasco nei giorni precedenti, scatenava la propria rappresaglia, dando luogo al rapimento di più di 30 siriani e di un cittadino turco. Il 17 agosto, mentre veniva pienamente ufficializzata la nomina di Brahimi, circa 160 persone perdevano la vita in Siria in varie località. Sul piano diplomatico l'Iran si diceva favorevole alla proposta egiziana di formare un gruppo di contatto delle potenze regionali musulmane sulla Siria, per riunire oltre a Egitto e Iran anche Arabia Saudita e Turchia. Il 18 agosto, mentre si diffondevano voci di una defezione tentata dal vice presidente siriano Faruk al Sharaa, che secondo i ribelli sarebbe poi stato arrestato, venivano uccise in Siria più di 140 persone, con l'artiglieria del regime che infieriva in maniera particolarmente pesante sulla regione meridionale di Daraa. Nei giorni successivi, mentre proseguivano i combattimenti, e il 20 agosto ad Aleppo perdeva la vita la giornalista giapponese Mika Yamamoto proprio mentre cercava di documentarli; si verificava un botta e risposta tra gli Stati Uniti e il regime siriano, con il presidente Obama ad ammonire per l’ennesima volta la Siria a non fare ricorso ad armi chimiche (e nemmeno a dispiegarle), pena l’intervento militare statunitense, e il regime di Assad a ribattere che anche contro l’Iraq nel 2003 le armi chimiche si rivelarono un pretesto falso, ma decisivo per l’attacco, che evidentemente i Paesi occidentali preparerebbero anche contro la Siria. A parziale sostegno delle tesi siriane sono sembrate andare le ammissioni francesi in ordine alla forniture militari ai ribelli da parte di Arabia Saudita e Qatar, come anche le indiscrezioni di stampa in Germania e nel Regno Unito sul supporto di intelligence che già da tempo Londra e Berlino avrebbero fornito ai ribelli siriani. Intanto il 21 agosto perdevano la vita in Siria 183 persone, e tra queste le decine di cadaveri ritrovati in alcuni sotterranei nel sobborgo sud-occidentale della capitale di Muaddamiya. Forse ancor più cruenta era il 22 agosto l'azione repressiva delle forze governative siriane contro alcuni sobborghi della capitale in cui i ribelli si erano attestati in posizioni di forza: secondo i consueti schemi, ai bombardamenti e all'attacco massiccio delle forze corazzate faceva seguito l’irruzione casa per casa delle milizie lealiste, anche per terrorizzare la popolazione di queste località, in buona parte favorevole ai ribelli. Nel corso di queste azioni di “disinfestazione” - così le hanno definite i media ufficiali - è stato ucciso anche un ex giornalista ormai da mesi schieratosi contro il regime, Musaab Awdallah, freddato con un colpo alla testa in una vera e propria esecuzione. Il suo destino è stato condiviso da una settantina di altre persone, passate per le armi durante i rastrellamenti. Nel Libano si sono intanto ripetuti scontri armati nella città portuale settentrionale di Tripoli, ancora una volta tra fazioni filosiriane e militanti sunniti. 103 morti hanno caratterizzato la giornata del 23 agosto, che ha visto una nuova offensiva delle forze governative contro la periferia meridionale e i sobborghi antistanti della capitale, senza trascurare la prosecuzione dei combattimenti ad Aleppo, anche qui con le forze del regime in fase di ripresa. Nei giorni successivi l'offensiva governativa si è concentrata particolarmente su uno dei sobborghi della capitale, quello meridionale di Daraya, provocando più di duecento vittime, tra le quali, numerosi, donne e bambini. Mentre il 24 agosto sono rimasti feriti nel Nord del Libano due giornalisti, coinvolti negli scontri in atto tra miliziani sunniti e filosiriani alawiti, il presidente Assad ha incontrato il 26 agosto un emissario iraniano, e al termine dei colloqui ha rincarato la dose, inquadrando gli eventi in corso in Siria nel più vasto contesto regionale, contro il quale sarebbero diretti gli sforzi delle potenze straniere di destabilizzazione del regime di Damasco, quale premessa di un generale ridisegno dei rapporti di forza nella regione mediorientale. Nella stessa giornata del 26 agosto è stato posto fine al giallo che riguardava il vicepresidente siriano Faruk al Sharaa, secondo l'emittente panaraba saudita al Arabiya ormai in salvo in Giordania: in realtà al Sharaa è ricomparso nel suo ufficio nella capitale e ha anche partecipato all'incontro di Assad con l'inviato iraniano, senza peraltro nell’immediato rilasciare dichiarazioni. In seguito, tuttavia, al Sharaa è intervenuto sul complesso della situazione siriana, asserendo che la soluzione della crisi passa per una cessazione della violenza da parte di tutti gli attori in campo, senza precondizioni di sorta. Il 27 agosto, in occasione della conferenza degli ambasciatori di Francia all’Eliseo, il Presidente François Hollande ha affiancato gli Stati Uniti nel sostenere che l'eventuale utilizzazione di armi chimiche da parte del regime siriano costituirebbe per la Comunità internazionale legittima causa di intervento militare diretto. Hollande ha in un certo senso concordato con quanto affermato in precedenza dal presidente siriano Assad sul carattere strategico della Siria per tutta la sicurezza in Medio Oriente, con particolare riguardo alla stabilità libanese. Il presidente francese si è detto disposto a riconoscere un governo provvisorio siriano già all'atto della sua formazione. Nella stessa giornata si è registrato l'abbattimento di un elicottero governativo da parte dei ribelli sui cieli della capitale, mentre l'offensiva governativa si concentrava sulla parte orientale di Damasco. Nel complesso si sono registrati 112 morti, dei quali 41 nella capitale e dintorni. Di 61 persone è stato invece il bilancio delle vittime il 28 agosto, 17 delle quali uccise nella cittadina del nord ovest di Kfarnabl pesantemente bombardata dall'aviazione siriana. Nel sobborgo di Jaramana, a sud di Damasco, vi è stato un attentato che ha provocato la morte di 12 persone, e che il governo ha attribuito ai ribelli: Jaramana ha una popolazione prevalentemente costituita da drusi, un'altra minoranza sciita non ortodossa, che non si è apertamente schierata contro il regime di Assad. Il 29 agosto, mentre proseguivano i combattimenti a Damasco e ad Aleppo, nella parte orientale della capitale i ribelli hanno conquistato un deposito di missili all'interno della base militare di Saqba. Inoltre, i ribelli avrebbero attaccato l'aeroporto militare di Duhur, tra le città di Aleppo e Idlib, nel Nordovest siriano. Nel complesso, la giornata ha fatto registrare 76 vittime, la maggior parte delle quali nella capitale e negli immediati dintorni. Il 30 agosto il presidente egiziano Morsi, recatosi in Iran per il passaggio di consegne della presidenza triennale del Movimento dei non allineati al collega Ahmadinejad, ha affermato con nettezza la liceità della ribellione al regime siriano, definito sanguinosamente oppressivo, rimanendo in ciò agli antipodi della posizione di Teheran, che continuava ad appoggiare strenuamente il regime di Assad. Morsi ha chiesto ai 120 paesi non allineati intervenuti al Vertice di Teheran di sostenere la lotta dei siriani con la ricerca di una soluzione non militare, ma politica alla crisi in atto. Nella stessa giornata i ribelli siriani riuscivano per la seconda volta in meno di un mese ad abbattere un Mig governativo, e, soprattutto, progredivano nel tentativo di impadronirsi dell’aeroporto militare di Duhur. Ne seguiva un pesante bombardamento sulla cittadina, con il sapore della rappresaglia, che provocava anche la morte di otto bambini. La giornata del 30 agosto avrebbe registrato complessivamente 67 vittime tra i civili e i ribelli, in seguito tra l’altro a combattimenti nei sobborghi meridionali e nordorientali di Damasco, durante i quali i governativi avrebbero anche assaltato un ospedale. Il 31 agosto mostrava che le forze filogovernative non intendevano rinunciare al controllo dell’aeroporto di Duhur, intorno al quale tornavano a infuriare i combattimenti, peraltro forti anche in altre zone della Siria, come in prossimità del confine iracheno – qui l’offensiva era in mano ai ribelli -, ad Aleppo e nei dintorni settentrionali della capitale, ove le autorità procedevano a sbarrare gli accessi dall’esterno, nonché ad isolare le principali moschee dei quartieri maggiormente interessati dalla rivolta. Anche il 31 agosto il numero delle vittime è stato stimato in 67. In considerazione del sempre crescente numero di sfollati e profughi siriani – secondo stime dell’Alto commissariato ONU per i rifugiati avrebbe raggiunto alla fine di agosto la cifra di 230.000 la massa dei siriani espatriati, a fronte di un milione e mezzo di sfollati interni – la cooperazione italiana allo sviluppo ha inviato in Turchia un volo carico di aiuti umanitari per i profughi siriani colà ospitati. Il 1° settembre è caduta la resistenza dei governativi nella base della difesa aerea di Albukamal, nell’estremo lembo orientale della Siria: in tal modo i ribelli hanno potuto impadronirsi di grandi quantità di armi e munizioni antiaeree – sembra al proposito che gli oppositori armati non siano in grado di pilotare i velivoli eventualmente catturati, le cui bombe e missili sono perciò inservibili. Infatti, un gran numero di aerei ed elicotteri sarebbero stati distrutti a terra nei vari attacchi ad aeroporti militari. Il 2 settembre, a conferma del delicato ruolo che l’intelligence americana ricopre in Turchia per coordinare gli aiuti ai ribelli e, al tempo stesso, impedire che finiscano nelle mani sbagliate (al Qaida), rassicurando nel contempo Ankara sulla possibile escalation delle azioni armate del terrorismo curdo, il capo della CIA David Petraeus si è recato in Turchia. I ribelli hanno denunciato frattanto una campagna di attacchi indiscriminati contro i civili in tutto il territorio siriano, con l’obiettivo, da parte delle forze lealiste, di prevenire l’estensione della rivolta, colpendo soprattutto i giovani, potenziali nuovi ribelli; nonché di precostituire forse una ridotta di estrema resistenza per gli alawiti nella regione occidentale di Latakia, previa una vera e propria pulizia etnica. Da parte loro i ribelli hanno colpito con due diversi ordigni il quartier generale dell’esercito siriano, con effetti tuttavia assai limitati. Per porre fine alle persistenti divisioni in seno alle opposizioni – la ribellione è infatti guidata dall’Esercito libero siriano e da comitati locali, assai più che dal Consiglio nazionale siriano - lo stesso Cns avrebbe deciso di aprirsi alla partecipazione di ulteriori gruppi di oppositori, operanti sia in patria che all’estero. Si segnala che il 3 settembre si è tenuta a Roma la prima riunione del “Tavolo interministeriale sulla Siria”, presieduta dal ministro degli esteri Giulio Terzi, assistito dal sottosegretario Marta Dassù, dopo pochi giorni dall’incontro del “Core Group” del Gruppo degli Amici della Siria svoltosi sempre nella capitale il 29 agosto. "La caduta del regime di Assad, quando avverrà, non deve trovarci impreparati. L’Italia è impegnata con i principali partner a definire le linee che guideranno l’azione internazionale e, in questo ambito, il suo impegno nazionale - nei settori dell’aiuto umanitario, del sostegno economico, e della ricostruzione delle istituzioni - nella Siria del 'dopo Assad'”: con queste parole il Ministro degli Affari esteri ha commentato l’insediamento di questo nuovo organismo che ha trattato la preoccupante questione degli sfollati all’interno del Paese (almeno un milione e mezzo) e dei rifugiati nei Paesi confinanti (oltre 200mila, fra Turchia, Giordania, Libano, Kurdistan iracheno), un aspetto della crisi che, oltre ai suoi dolorosi risvolti umanitari, può ripercuotersi sulla stabilità regionale, ed in prospettiva può costituire anche un elemento di preoccupazione per i flussi migratori verso l’Europa. Il Tavolo ha altresì affrontato il tema della ricostruzione economica della Siria, in considerazione dei tradizionalmente forti legami economici bilaterali, che, prima della crisi, vedevano l’Italia primo partner commerciale del Paese fra gli europei. Si è concordato di individuare le aree prioritarie e di tracciare una mappatura dei settori verso i quali Governo e imprese dovranno concentrare il loro impegno nel dopo Assad. Frattanto la preoccupazione per la possibile prossima caduta del regime ha indotto anche alcune frange di cristiani ad organizzare proprie milizie, per fronteggiare la temuta ondata di vendette da parte dei sunniti, da sempre discriminati dal “regime delle minoranze” del clan degli Assad; più in generale, il conflitto sembra pericolosamente seguire sempre più le linee di faglia delle diverse confessioni religiose del paese, e ciò potrebbe preludere a una tragica guerra civile di stampo confessionale, come quella libanese del 1975- 1990. Il 12 settembre, quando la prosecuzione inarrestabile dei combattimenti registrava più di cento vittime, un attentato ad un posto di blocco governativo nella provincia di Idlib, perpetrato per mezzo di un’autobomba, provocava la morte di 18 soldati. Nulla più di un valore interlocutorio ha avuto l’incontro del 15 settembre a Damasco tra Bashar al-Assad e Brahimi, che il giorno prima aveva incontrato anche gli oppositori interni tollerati dal regime. Diversi appelli sono stati lanciati negli stessi giorni dal Papa Benedetto XVI, durante la sua delicata visita in Libano, perché la Comunità internazionale e i paesi arabi raggiungessero un’intesa praticabile per la pacificazione della Siria. Le Nazioni Unite, con il progredire dello stallo siriano, hanno registrato un sempre maggiore afflusso nel paese di miliziani integralisti islamici, accanto all’incremento delle violazioni dei diritti umani, attribuite ormai ad entrambe le parti in conflitto. Il 19 settembre ha visitato la Siria il Ministro degli esteri iraniano Salehi, dopo consultazioni ad Ankara e al Cairo, e ha ribadito il sostegno illimitato di Teheran al regime di Assad, quale parte fondamentale dell’”asse della resistenza” al nemico sionista e occidentale. Il giorno dopo il bombardamento aereo di una stazione di rifornimento nell’estremo nord siriano provocava decine di morti, mentre il regime siriano ribadiva la linea dura, e accusava il gesuita italiano Paolo dall’Oglio, già espulso dal paese, di dar vita dall’estero a una campagna prezzolata di disinformazione contro il governo siriano e a favore di gruppi sunniti integralisti. Il 22 settembre una fazione dell’Esercito libero siriano ha annunciato lo spostamento nella parte settentrionale del territorio siriano – che sarebbe ormai libera dai governativi – del proprio comando, finora ubicato nella Turchia meridionale: la stessa Tuschia, intanto, rafforzava il dispositivo militare nella parte centrale della frontiera con la Siria, in previsione di più aspri combattimenti. Il 23 settembre sono cominciati a Damasco i lavori di una Conferenza sponsorizzata da Russia e Cina, nella quale si sono ritrovati membri di diverse fazioni delle opposizioni operanti all’interno del paese: la Conferenza ha chiesto una serie di misure, a partire dal cessate il fuoco, per ristabilire condizioni atte all’instaurazione di un vero negoziato con il regime per la costruzione di una Siria democratica. Il 26 settembre un duplice attentato dinamitardo ha colpito lo stato maggiore delle forze armate siriane, mentre i lavori della sessione annuale dell’Assemblea Generale dell’ONU non registravano alcun mutamento nelle posizioni del regime siriano, né in quelle di chi lo appoggia o lo avversa. Intanto il giornalista iraniano Maya Nasser, dell’emittente pubblica Press Tv, ha perso la vita a Damasco, colpito da un cecchino: è salito in tal modo a 11 il numero dei reporter uccisi nel2012 in Siria nell’esercizio della loro professione. Il divampare degli scontri ad Aleppo ha intanto coinvolto il 30 settembre anche il ‘suk’, che già dal 1986 figura tra i siti UNESCO del patrimonio mondiale dell’umanità, il quale è stato raggiunto dalle fiamme, con la distruzione di molti degli oltre 1.500 negozi che ne formano il corpo vivo. Il 2 ottobre, per la prima volta, il governo siriano ha fatto riferimento al numero di profughi e sfollati del conflitto, che avrebbe coinvolto 671.000 famiglie, senza peraltro distinguere tra la componente espatriata e quella interna. Le stime ONU parlano di oltre un milione di sfollati interni e di oltre trecentomila profughi nei paesi vicini. Crescono i rischi di estensione regionale del conflitto siriano; si rinnovano le tensioni con la Turchia. Il 3 ottobre è cresciuto il rischio di escalation regionale del conflitto siriano: infatti, mentre ad Aleppo quattro attacchi mediante autobomba hanno provocato la morte di una cinquantina di persone soprattutto tra i governativi, alcuni colpi di mortaio sparati dal territorio siriano hanno raggiunto la Turchia, provocando nella cittadina frontaliera di Akcakale la morte di una donna e dei suoi quattro bambini, nonché diversi feriti. La Turchia, la cui artiglieria ha risposto martellando alcune postazioni siriane di confine, ha prontamente informato dell’accaduto il segretario generale dell’ONU e l’Alleanza atlantica, che in una riunione notturna a Bruxelles ha condannato la Siria, intimandole di cessare da atti considerati aggressivi di uno Stato membro della NATO. La Turchia ha anche inviato una lettera al Consiglio di sicurezza dell'ONU, denunciando l'incidente di Akcakale alla stregua di una flagrante violazione del diritto internazionale, e richiedendo al Consiglio le azioni necessarie. In questo contesto è cresciuto anche l'allarme da parte di Israele, che ha inviato il capo dell'intelligence militare, generale Cochavi, unitamente ad altri ufficiali, per compiere un sopralluogo sulle alture occupate del Golan, alle quali pericolosamente si avvicinava il conflitto in corso in Siria - va ricordato che alcuni colpi di mortaio sparati dalle forze siriane avevano raggiunto nelle passate settimane anche la parte del Golan occupata da Israele, pur senza provocare vittime. In tal modo il governo israeliano sembrava dar credito alle previsioni per le quali il Golan potrebbe essere una delle zone di prossima frizione in Medio Oriente, e in tal senso si preparerebbe ad affrontare soprattutto minacce di carattere terroristico, assai più che un conflitto di tipo classico con la Siria. Allo stesso tempo è stato elevato anche lo stato di allerta delle forze armate israeliane nell'Alta Galilea, per prevenire eventuali iniziative degli Hizbollah libanesi, da sempre attivi sostenitori del presidente siriano Assad. Nella giornata del 4 ottobre sembrava ristabilirsi una situazione di quasi normalità – ma il Parlamento turco intanto autorizzava per un anno il Governo di Erdogan, qualora provocato, ad azioni militari di ritorsione in territorio siriano -, con la cessazione dei bombardamenti turchi e una qualche forma di scuse da parte siriana, non priva tuttavia di accenni alla necessità che anche la Turchia metta fine al libero transito dei ribelli fra la Siria e il suo territorio. Il 5 ottobre tuttavia un altro colpo di mortaio siriano raggiungeva il territorio turco, provocando la risposta dell’artiglieria di Ankara, e uguale copione si recitava il 6, il 7 e l’8 ottobre, mentre a fronte dei continui bombardamenti delle forze fedeli ad Assad su diverse città siriane i ribelli si vedevano bloccare la fornitura di armamenti pesanti promessa da Arabia Saudita e Qatar, per il timore americano che potessero finire nelle mani degli elementi integralisti islamici parte in causa nella ribellione al regime di Damasco. Per quanto riguarda il ruolo della Turchia, va tenuto presente che larga parte dell'opinione pubblica interna e buona parte dello schieramento politico rimproverano a Erdogan le contraddizioni della sua politica nei confronti di Damasco, che in una fase precedente era stato individuato quale paese-chiave della regione e interlocutore fondamentale per Ankara. Il rovesciamento di atteggiamento verso il regime di Assad, privilegiando nettamente gli elementi sunniti in lotta con esso, oltre a esporre, come si è visto, la Turchia a pericolosi rischi di guerra - rispetto alla quale la maggioranza dei turchi sembra nettamente contraria -, stava conducendo al completo smantellamento dell'approccio di politica estera incarnato dal Ministro Davutoglu, che era basato su una ripresa di prestigio turco in stile neo-ottomano, e soprattutto sull'assioma di relazioni positive con tutti i paesi confinanti. In ogni modo il 9 ottobre la NATO faceva sentire la propria voce, con il segretario generale Rasmussen, che, pur augurandosi una soluzione politica del contrasto turco-siriano, metteva in chiaro come l'Alleanza atlantica avesse già pronti i piani per difendere la Turchia - significativamente, però, non ha fatto cenno ad alcun intervento in territorio siriano. Nella stessa giornata va registrato che secondo le opposizioni il regime avrebbe utilizzato nei sobborghi di Damasco persino bombe a grappolo, particolarmente devastanti soprattutto per i civili, per gli effetti ritardati e diffusivi della loro esplosione. Il 10 ottobre il capo di stato maggiore turco ammoniva la Siria, avvertendo che eventuali nuovi colpi di mortaio in territorio turco avrebbero avuto una risposta violenta. Le dichiarazioni del segretario alla Difesa USA Leon Panetta, rilasciate a Bruxelles, sulla presenza di un contingente militare americano ormai da tempo in Giordania per cooperare alle necessità umanitarie che il forte afflusso di rifugiati nel paese comporta, ma soprattutto per un monitoraggio dei siti delle armi chimiche e batteriologiche siriane, contribuivano a infittire la complessa trama che si svolge alle frontiere della Siria dilaniata da un conflitto che sembra sempre più senza sbocco. In questo contesto l'aviazione militare turca costringeva un aereo di linea proveniente da Mosca, e sospettato di trasportare armi destinate alle forze del regime di Assad, ad atterrare ad Ankara. Immediatamente la Siria accusava la Turchia di aver compiuto un atto di pirateria aerea, mentre la Russia metteva l'accento sui rischi fatti correre all'equipaggio dell'aereo, composto da 17 passeggeri tutti i russi. Il presidente Putin, che avrebbe dovuto recarsi in Turchia pochi giorni dopo, rinviava la propria visita. A parte questi i rischi di escalation della tensione anche tra due paesi come la Russia e la Turchia che dopo la caduta dei regimi comunisti avevano inaugurato un corso di relazioni positive, sempre più la situazione siriana si configurava priva di sbocchi, a maggior ragione nell'attesa dell’esito delle presidenziali americane. Solo l'inviato dell'ONU Brahimi sembrava ancora convinto di poter strappare una minima tregua alle parti in lotta in Siria, dove intanto alla metà di ottobre 2012 si è giunti a parlare di un totale di 34.000 morti e più di 100.000 profughi riparati nella vicina Turchia. Ciò che appariva in tutta chiarezza era l’errore di calcolo in merito alla possibilità di una rapida caduta del regime siriano, in questo senso rivelatosi assai più forte degli altri governi autoritari caduti durante la Primavera Araba. Soprattutto la posizione della Turchia, in questo contesto, si è palesata sempre più difficile, con il venir meno della precedente impostazione di politica estera sulle buone relazioni con tutti paesi vicini, nell'ottica di una ripresa di influenza ispirata al prestigio ottomano del passato del paese, senza per questo riuscire nemmeno nell’opposto obiettivo di un’affermazione di prestigio nei riguardi della Siria. Da parte di Ankara giungeva ad un certo punto la richiesta alla NATO – il Consiglio dei Ministri degli Esteri dell’Alleanza dava il via libera ai primi di dicembre - di ricevere alcune batterie di missili Patriot per proteggere i propri confini: le ulteriori tensioni che certamente l'eventuale arrivo dei missili poteva comportare facevano risorgere l’idea di un'uscita dalla crisi siriana mediante l'offerta al presidente Assad di un salvacondotto per recarsi in esilio - in tal senso tornava a pronunciarsi il premier britannico Cameron durante una visita in Giordania nei primi giorni di novembre. Tuttavia da Damasco veniva una risposta del tutto negativa, accanto all'ennesima messa in guardia sugli effetti catastrofici che un attacco alla Siria potrebbe comportare per tutto il complesso equilibrio mediorientale.
L'11 novembre a Doha si compiva però forse un passo decisivo per il potenziamento della lotta contro il regime siriano: le diverse formazioni dell'opposizione hanno infatti, dopo quattro giorni di trattative sponsorizzate dal Qatar e dalla Lega Araba, firmato un accordo per la creazione di una ''Coalizione nazionale'' che per molti versi assomiglia a quello che era stato il Consiglio nazionale di transizione libico. Tra i punti principali dell’intesa vi è l’impegno di tutti i contraenti a non portare avanti alcun dialogo o negoziati con il regime, la cui completa caduta è l’unico obiettivo comune, assieme alla punizione di tutti i crimini perpetrati contro il popolo siriano. L’impegno concerne anche l'unificazione dei consigli militari rivoluzionari sotto la supervisione del Consiglio militare supremo. Dopo il riconoscimento internazionale, la Coalizione nazionale procederà a dar vita ad un governo provvisorio, mentre alla caduta effettiva del regime verrà convocato un Congresso generale nazionale e si formerà un governo di transizione, con lo scioglimento della Coalizione nazionale e del governo provvisorio. La Coalizione nazionale ha subito ottenuto il riconoscimento delle monarchie arabe del Golfo e dei paesi del Nordafrica usciti dalla Primavera Araba, nonché della Turchia, della Francia, dell’Italia e del Regno Unito. Il premier britannico Cameron spingeva intanto l’Unione europea a togliere l’embargo sulle armi nei confronti dei ribelli siriani: dal canto loro, i Ministri degli Esteri della UE riuniti a Bruxelles il 19 novembre diffondevano un comunicato di riconoscimento della nuova Coalizione nazionale siriana. Questi importanti sviluppi avvenivano mentre sia il confine turco-siriano che le alture del Golan tra Israele e Siria vedevano lo sconfinamento di tiri di artiglieria siriani, con Israele che rispondeva colpendo un obiettivo militare nel territorio della Siria. All’inizio di dicembre il premier turco Erdogan ha ricevuto la visita del presidente russo Putin: frammezzo ad importanti questioni di reciproco interesse economico, soprattutto legate costruzione di future grandi pipelines per il gas russo, il cui tragitto coinvolge la Turchia; Putin non ha mancato di esprimere la propria preoccupazione per l'imminente dispiegamento dei Patriots della NATO al confine turco-siriano, facendo ricorso a una citazione di Anton Cechov che allude all'inevitabile utilizzazione di un'arma una volta schierata sul teatro. Nelle stesse ore, il perdurare della situazione di grave pericolo sul territorio siriano induceva l'Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite ad annunciare il ritiro del proprio staff non indispensabile dal paese, con il rimanente personale che sarebbe rimasto solo nella capitale. I giorni successivi sembravano fornire uno scenario di progressivo venir meno della coesione attorno al regime di Assad, a partire dal vertice di Dublino del 6 dicembre fra il segretario di Stato USA Hillary Clinton, il Ministro degli esteri russo Lavrov e l'inviato dell'ONU Brahimi, nel corso del quale da parte russa veniva qualche ammissione sulla scarsa presa che ormai Mosca eserciterebbe sul regime di Damasco. La posizione di quest'ultimo si faceva poi via via più difficile in ragione dei crescenti moniti americani ad astenersi da qualunque progetto di utilizzazione di armi chimiche contro l’opposizione o contro paesi della regione, il che innescherebbe conseguenze catastrofiche in primis proprio per la Siria. La situazione economica siriana si è intanto molto aggravata, con un crollo del 20% del PIL e un tasso di inflazione del 40%, tutti indicatori perfettamente coerenti con lo stato di caos in cui il paese versa ormai da quasi due anni. Il 12 dicembre il governo americano ha formalmente riconosciuto la Coalizione nazionale siriana, invitando il suo leader al-Khatib ad una visita ufficiale negli USA – nel tentativo comprensibile di esercitare una qualche forma di controllo sulla matrice ideologica del nuovo organismo che ha raggruppato tutte le posizioni politiche a Bashar Assad. Uguale riconoscimento la Coalizione ha ottenuto dal gruppo degli amici del popolo siriano (nel quale figura anche l'Italia) formato da paesi arabi e occidentali contrari al regime di Assad. Oltre ai tentennamenti russi, un altro segnale delle difficoltà del regime siriano veniva fornito dall'Iran, che con toni assai meno bellicosi del passato si appoggiava a Pechino per richiedere un cessate il fuoco sul terreno. Dopo che nel luglio 2012 due tecnici dell’Ansaldo operanti in Siria erano stati rapiti, per essere poi rilasciati una settimana dopo; il 17 dicembre veniva comunicata la sparizione nei giorni precedenti di un ingegnere elettronico italiano, Mario Belluomo, che lavorava in uno stabilimento a Homs. Il 4 febbraio 2013, fortunatamente, Belluomo veniva liberato insieme ai due colleghi russi rapiti insieme a lui. Il 26 dicembre ha abbandonato il regime siriano il generale al-Shalal, capo della polizia militare, lasciandosi andare nella descrizione del regime alla stregua di una banda di assassini e saccheggiatori. Al-Shalal ha anche sostenuto, per la verità in maniera non lineare, che il regime avrebbe usato armi chimiche, almeno nell’attacco a Homs avvenuto alla vigilia di Natale - i ribelli dal canto loro avevano parlato nei giorni precedenti di utilizzazione di un gas velenoso che avrebbe causato la morte di sette persone, intossicandone altre decine. L’inizio del 2013 vedeva diramare alcuni dati dell’Alto Commissariato dell’ONU per i diritti umani, in base ai quali si sono stimate in circa 60.000 le vittime del conflitto siriano dal marzo 2011 - anche oltre le valutazioni delle opposizioni al regime di Assad - si pensi che le vittime dell’Afganistan, una guerra in corso dal 2001, non supererebbero nel complesso il numero di 50.000. Inoltre, nel conflitto siriano prevale ancor più largamente che è altre situazioni la quota dei civili che hanno persola vita, mentre si stima in due milioni e mezzo il numero dei profughi, dei quali due milioni di rifugiati interni. Sempre più chiaramente emergono intanto le preoccupazioni di Israele e della Comunità internazionale per un un possibile passaggio di armamenti anche letali dalla Siria ormai in disfacimento al forte alleato in territorio libanese, Hezbollah. In questo senso il 29 gennaio 2013 il capo dell'aviazione militare israeliana aveva senz'altro ammesso che lo Stato di Israele è già impegnato in una efficace lotta contro il trasferimento di armamenti agli Hezbollah attraverso il confine siro-libanese: solo poche ore dopo fonti estere che non hanno però ricevuto conferma ufficiale in Israele hanno riferito di un attacco di caccia israeliani sul confine tra Libano e Siria per impedire che una batteria di missili AS-17 giungessero in possesso di Hezbollah. La partita più pericolosa potrebbe innescarsi nel momento in cui il sospetto dei trasferimenti di armi riguardasse anche armamenti chimici.